lunedì 13 ottobre 2008

Lilli l'irriducibile


Da qualche mese la signora Lilli fa fatica a distribuire i suoi celebri Baci. Non che siano meno buoni d’un tempo, anzi: gli anni d’esercizio a dosare farina e mandorle (“ma solo quelle ben tostate”, assicura lei) non sono certo passati invano. I Baci di Lilli sono una delizia che però in Corso Allamano, a Grugliasco, sempre meno persone hanno l’occasione di gustare. Gli oltre milleduecento operai che fino al 2004 entravano ogni mattina nello stabilimento di Corso Allamano da tre anni e mezzo sono a casa, in cassa integrazione, e difficilmente hanno voglia di deliziarsi il palato con le dolcezze della signora Lilli. Piuttosto cercano di capire che fine farà – e se proprio di fine bisognerà parlare – la loro azienda. Si inventano lavoretti per portare a casa qualcosa in più dei 600 euro che tutti i mesi, a fine mese, arrivano a casa loro sotto forma di assegno. La metà, euro più euro meno, di quel che guadagnavano finché c’era da essere le mani e le braccia di una delle più prestigiose officine del made in Italy, la Carrozzeria Bertone. Spesso i tanti operai e i pochi impiegati che ancora non hanno trovato una nuova occupazione si incontrano, al bar o ai giardinetti, sfogliano i giornali locali e scoprono che la fine dell’esilio dalla fabbrica potrebbe finire. Oppure no.
Nell’ultimo anno e mezzo la Bertone spa, la società capofila del gruppo fondato da Giovanni Bertone nel 1912 e rilanciato da Giuseppe nel dopoguerra, è stata più volte sul punto di essere venduta. S’era fatta avanti la Fiat, vicina per ragioni di storia e di geografia, ma anche di business: l’amministratore delegato del Lingotto, Sergio Marchionne, nel 2007 aveva lasciato intendere che – magari partendo dal progetto di una nuova Lancia Cabrio – le due aziende avrebbero potuto legarsi in modo stabile, dopo decenni di collaborazione fruttuosa. Gli operai già si davano di gomito dai bar ai giardinetti: vedrai che si torna a lavorare, si dicevano, pronti a non dover comprare più un giornale per conoscere il loro destino. Non avevano fatto i conti con Lilli. La signora analizzò la proposta, soppesò il problema, valutò le conseguenze e poi disse che no, a quelle condizioni la Lancia Cabrio poteva rimanere in un cassetto ancora per un bel po’. Se la facessero da soli, Montezemolo e Marchionne. C’è chi dice che il gran rifiuto fosse dovuto alla pretesa dei torinesi di venire a fare i padroni a Grugliasco in cambio di un assegno da cento euro per rilevare un’azienda senza più soldi in cassa e senza una commessa di rilievo da anni. C’è chi dice che l’offerta fosse migliore, ma prevedesse troppi esuberi e non fosse pertanto abbastanza buona da convincere la signora Lilli che si trattasse d’un affare degno del suo Nuccio.
S’erano incontrati nel ’56, Lilli e Nuccio. Prima ancora di conoscersi, li legava la passione per le auto. Doveva essere un tipetto niente male Lilli, che allora era soltanto Ermelinda Cortese, per venirsene a Torino da Alessandria a farsi montare – racconterà in un’intervista parecchi anni dopo – “dei rostri per il paraurti della 600 nuova che mi aveva regalato il mio papà”. Bionda, occhi chiari, sinuosa, la ventenne Lilli sta scegliendo il rostro giusto per la sua utilitaria quando l’avvicina un uomo affascinante e ben vestito: “Secondo me questo tipo è più adatto di quello che ha scelto lei”, esordisce lui. “E lei come fa a saperlo?”, ribatte subito la Lilli. “Mi chiamo Nuccio Bertone e faccio il carrozziere”, la risposta.
In realtà Nuccio Bertone non era più un artigiano da un bel po’. Nel 1956 la sua Carrozzeria, che allora aveva sede in Corso Peschiera, aveva da poco sfornato la MG cabriolet e la Giulietta Sprint e lui stesso, da qualche giorno, girava per Torino con un prototipo turchese della velocissima Giulietta Sprint Special. Prima erano venute la Lancia Ardita e la Lancia Artena e due cabrio che sapevano di futuro (erano gli anni Quaranta) come la Fiat 2800 e la 1100 Stanguellini. Nuccio Bertone, insomma, era già Nuccio Bertone. La Lilli rimane soggiogata dal fascino di quel signore di 42 anni che ha fatto dello stile la propria vita e che, tra i suoi amici, può contare tutti i migliori nomi dell’alta borghesia piemontese, a cominciare dagli Agnelli. I due si sposano e hanno due figlie, Barbara e Marie Jeanne. Lui continua a disegnare modelli che fanno la fortuna del design italiano nel mondo e si diverte a competere, di volta in volta, con gli altri carrozzieri piemontesi di grido: Pinin Farina (allora ancora staccato) e Ghia. Nel ’59 assume un giovane disegnatore di belle speranze: ha 21 anni e nel curriculum può già vantare una breve esperienza al Centro Stile Fiat dell’ingegner Dante Giacosa, quello della Topolino e della 500. Si chiama Giorgetto Giugiaro e resterà cinque anni alla Bertone, abbastanza da partecipare all’elaborazione dei progetti per l’Alfa 2600 Sprint, della Fiat Dino Coupé e della Ferrari 250 Gt. Qualche anno più tardi lo sostituirà un altro genio come Marcello Gandini, uno in grado di disegnare nel giro di pochi anni bolidi che faranno la storia dell’automobile come la Lamborghini Miura, la Lancia Stratos, la Fiat X1/9 e la Lamborghini Countach.
Lilli invece si dedica alla sua grande passione culinaria. Conosce il pasticcere Nene Maggiora, una leggenda piemontese legata ai biscotti di Carrù, comincia a frequentare i corsi gastronomici della chef Romana Bosco e a visitare i ristoranti dei migliori gourmet della Costa Azzurra. Sono anni di mondanità vistosa (la Torino snob non le ha mai perdonato i visoni rosa e turchini che le arrivavano in quantità dalla premiata pellicceria Togno) e di successi familiari che proseguono, quasi senza sosta, fino alla morte di Nuccio, che nel ’97 se ne va a 83 anni. In quei giorni lo stabilimento di Corso Allamano produce le multispazio Berlingo per Citroën, ma l’azienda ha già in mano un contratto con la Bmw per la realizzazione di uno scooter coperto a dir poco innovativo, il C1. E poi ci sono le commesse storiche, come quelle di Fiat e Opel per le versioni cabrio della Punto e dell’Astra. Tra tutti, sono 70 mila veicoli l’anno.
A un certo punto, però, si rompe qualcosa. Succede intorno al 2000, quando la Opel fa sapere che non si avvarrà ancora dei designer (e degli impianti) Bertone per i suoi prossimi modelli, come la nuova Tigra. Anche la Fiat, con tutti i suoi marchi, all’improvviso scompare. Gli operai cominciano a non saper come fare per impegnare il tempo. Lilli li rassicura, dice che si tratta di una bufera passeggera dovuta alla crisi dell’automotive un po’ in tutto il mondo. A Paolo Caccamo, l’amministratore delegato da una vita al fianco del marito Nuccio, dice invece che è meglio farsi da parte. Lo sostituisce con Bruno Cena, manager alla Fiat durante la gestione Cantarella. Ci penserà lui, dice Lilli per rassicurare le maestranze e forse anche se stessa, a far uscire la Carrozzeria e il Centro Stile di Caprie, in Val di Susa, dalle secche. I contatti con il Lingotto non mancano, è lì che si deve puntare. Sul finire del 2003 i risultati sembrano arrivare: con il management dell’Alfa Romeo viene siglato un preaccordo per produrre a Grugliasco la nuova Gt, erede di quella disegnata dal team Bertone negli anni Sessanta. Anche per questo, è una commessa che ha il sapore della rivincita. Diventa, invece, il dramma di un’azienda: nei primi mesi del 2004 il Gruppo Fiat fa sapere che l’Alfa Gt sarà prodotta nello stabilimento di Pomigliano d’Arco dove, altrimenti, i dipendenti del Biscione si troverebbero senza lavoro a sufficienza. Il preaccordo non diventerà mai accordo e la commessa sfuma.
Lilli caccia Cena e comincia a sostituire un manager dopo l’altro. Da qualche mese l’azienda ha ottenuto la cassa integrazione per gli oltre 1.500 dipendenti. In quasi cinque anni, soltanto trecento di loro troveranno posto da un’altra parte. Gli altri sono ancora lì, a sperare che i vecchi tempi non siano finiti per sempre. Il primo tentativo è con un genero, Michele Blandino, che non riesce a concludere un accordo con Opel e porta a casa un’intesa con Bmw per la sola produzione di duemila esemplari della Mini. E’ il 2006, e da allora le commesse sono finite.
Nel frattempo, ai clienti si sono sostituiti i potenziali compratori. Nel 2005 si fa avanti Massimo di Risio, fondatore della DR Motor Company che in pochi anni s’è inventato una casa automobilistica a Termoli e vende i suoi modelli (realizzati con componentistica cinese) soltanto nei grandi ipermercati del nord Italia. All’imprenditore molisano serve più che altro un centro stile come quello della Val di Susa, ma l’idea di comprarsi stabilimenti e marchio della Bertone non gli dispiace. Lilli, però, non cede. Nuccio, dice lei, non avrebbe voluto vendere mai. Il marchio, poi, nemmeno a parlarne.
Di Risio è soltanto il primo a ricevere un rifiuto. Marchionne – che oltre alla Lancia Cabrio proponeva una collaborazione con Iveco per una linea di camper – è il secondo, ma non l’ultimo. A fine 2007 è la volta di Gian Mario Rossignolo, uno che – ai tempi della presidenza di una Telecom Italia ancora in mano pubblica, era il 1998 – il Financial Times definì “il John Wayne delle tlc”. Più che un cowboy, il manager piemontese di 77 anni pare l’uomo della Provvidenza. Un passato da giovane dirigente in Fiat tra i “kennediani” del dopo Valletta, la capacità di dialogo con i sindacati, il salvataggio della Zanussi di Pordenone e la stessa esperienza alla guida dell’azienda telefonica di stato ne fanno, sembra, la persona giusta per risollevare le sorti della Bertone. A dicembre Rossignolo fa sapere di essere pronto a sottoporre un piano, reso fattibile dal partner finanziario Meliorbanca, per rilevare la Carrozzeria e inserirla in un progetto con al centro l’ex Delphi di Livorno per la realizzazione di Suv extralusso. Gli operai ricominciano a sperare, i sindacati spingono per il sì alla cessione, la giunta regionale guidata da Mercedes Bresso lascia intendere che la politica non farebbe problemi. Persino le figlie di Nuccio (una, Barbara, è stata licenziata pochi mesi prima dalla madre che l’aveva promossa direttore generale l’anno precedente) fanno capire che a loro una vendita così non dispiacerebbe affatto. A Natale, però, Lilli decide di festeggiare senza Rossignolo.
Pochi giorni dopo è il turno di un imprenditore piemontese, Domenico Reviglio, che promette di rilanciare lo storico marchio del design con un progetto avveniristico: costruire auto ad aria compressa e poi sfruttare il proprio know how per fare i terzisti nel settore aeronautico. Per una volta, la vedova di Nuccio sembra convincersi. A gennaio, dopo due settimane di trattative, firma un preliminare con Reviglio per cedere attività e macchinari, tenendo per sé il marchio e i terreni su cui sorgono gli impianti. L’escamotage è una nuova società, la Keplero, in cui Reviglio ha il 65 per cento delle quote e Lilli il 35. Reviglio annuncia in conferenza stampa che “da lunedì i lavoratori potranno tornare in fabbrica”. Di quale lunedì parlasse, non s’è mai capito. Il giorno dell’effettivo passaggio delle azioni dai Bertone al nuovo arrivato, un agronomo del Cuneese, in realtà va in scena il dramma familiare: in pochi metri quadrati si tengono tre riunioni. Nella prima stanza, sola, c’è Lilli Bertone che accetta la nomina ad amministratore unico della Bertone spa, la società che dovrà poi avallare la vendita a Reviglio. Nell’ufficio accanto le figlie Barbara e Jeanne Marie, i cugini e soci di minoranza Gracco de Lay e i sindaci della società eleggono invece Barbara alla guida della capogruppo. A due passi c’è Reviglio, con i suoi legali, che aspetta di sapere con chi – e a che titolo – dovrà parlare. Pochi giorni dopo, il piano viene definitivamente bloccato dalla magistratura, tanto che la procura di Torino apre un fascicolo per appurare una presunta bancarotta fraudolenta.
L’epilogo è l’amministrazione controllata, con gli incaricati dal ministero delle Attività produttive in cerca da mesi di un nuovo compratore. Se ne sono fatti avanti sei: tre cordate cinesi, una indiana, una russa e una spagnola, quest’ultima con alle spalle un marchio di prestigio come Lotus. A giugno un’azienda di Hong Kong sembrava a un passo dall’acquisto ma pretendeva, come tutti, di impossessarsi anche di marchio e terreni, che però sono di un’altra società, la NuBe (acronimo che sta per Nuccio Bertone), dalla quale Lilli è riuscita a estromettere le figlie grazie alla conversione euro-lira: per far quadrare i conti, il suo 50 per cento è diventato più ricco di un centesimo. Gli operai, che nonostante tutto alla vedova del patriarca vogliono ancora bene, scrivono una lettera aperta per chiedere che, almeno stavolta, non si perda un’altra occasione. Lilli non li ascolta e, intervistata da Repubblica, ammette di non capirli: “I cinesi si prenderebbero il marchio, chiuderebbero lo stabilimento e andrebbero a produrre a minor costo a casa loro”. Qualche anno prima, i sindacati le avrebbero dato ragione. Adesso non le danno torto, sperando forse che entro la fine dell’anno – a gennaio i commissari minacciano di portare i libri in tribunale – la signora Ermelinda accetti una delle cinque proposte ancora in piedi e torni a sfornare i suoi deliziosi Baci di dama.

(© Il Foglio, 11 ottobre 2008)

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