mercoledì 20 febbraio 2008

Un amico a Sanremo


Al liceo eravamo compagni di banco. Insieme abbiamo scritto un musical (bellissimo) mai messo in scena e girato un paio di cortometraggi. Poi abbiamo continuato a sentirci e, quando possibile, a vederci. Dieci anni fa mi disse che, di lì a dieci anni (cioè oggi), si vedeva "a ringraziare per il premio alla notte degli Oscar o a suonare l'organetto in una stazione della metro B di Roma". Beh, non sarà la notte degli Oscar, però martedì prossimo Andrea Montepaone dirigerà l'orchestra al Festival di Sanremo per l'esecuzione del brano "Il rubacuori" (arrangiato da lui) dei Tiromancino. E io sono troppo orgoglioso di lui.

Gli amici degli amici e i figli di papà


Già l'alleanza mediatico-giudiziaria (l'ex pm che dice "spegnete le tv" è il cerchio che si chiude) non prometteva nulla di buono. Poi ci si è messo direttamente lui, W. Ora, non che qui qualcuno avesse pensato di poterlo votare, perché non serve conoscere di persona un politico per capire se nel corso della sua vita abbia fatto seguire i fatti alle parole oppure no. Veltroni non è di sicuro di questa specie, e quando tiene fede a un impegno l'impressione che se ne ha è che lo faccia soltanto perché gli conviene, e parecchio. Ma andiamo oltre. La promessa era fare "liste piene di giovani". Evviva. Poi ti giri un attimo e t'accorgi che è come quando "soli" voleva dire "liberi". Perché mettere in lista anche autorevoli figli di papà in quanto tali non vuol dire candidare i "gggiovani". Vuol dire scegliere una rosa di poteri forti e, nell'ambito delle loro dinastie, prediligere la faccia meno usurata e più piaciona. Puntare su giovani "veri" (cioè rappresentanti di loro stessi e dei loro talenti), in un Paese come il nostro che conosce soltanto il precariato fino ad almeno i 35 anni e l'accesso alle stanze dei bottoni dopo i cinquanta, significa inevitabilmente mettere in lista degli emeriti sconosciuti i cui cognomi non suggeriscano nulla di nulla agli elettori. Perché se domani W o il Cav. decidessero di candidare – che so – Daniele Raineri, che è l'unico giornalista italiano (con Rolla Scolari) ad aver intervistato David Petraeus a Baghdad, questo al grande pubblico non direbbe nulla. E non perché lui come cronista non valga, ma perché il suo cognome non è evocativo come quello del figlio di Benetton che non è conosciuto soltanto a Treviso, ma pure a Singapore. Eppure, quello che ha fatto nella sua vita il primo è tutto frutto del proprio sacrificio e della propria bravura. L'altro, per quanti sacrifici e bravura abbia potuto metterci di suo, è comunque partito con il vantaggio di un cognome pesante. W lo sa. E non ha esitato a scegliere.

martedì 19 febbraio 2008

venerdì 15 febbraio 2008

MGIF


E' tornato a giocare. Perché lui è un po' come il Moro che pur di andare in campo s'è fatto tesserare dalla Pontolliese Libertas, o come Damiano Tommasi, il ragazzo con la valigia che tornerebbe a tirare quattro calci al pallone pure sul campetto di Negrar, in Valpolicella. Nessuno se lo ricorda, perché di lui è rimasto il segno dei soldi e il mobbing di Lotito, ma quei due gol (uno, stratosferico, alla Spagna ai quarti) sono stati una delle cose più belle del culo di Sacchi. Chi vuole andarlo a vedere, può farsi un giro a Tombolo, vicino Padova. Dino Baggio gioca lì.

giovedì 14 febbraio 2008

Bipartitismo perfetto


dal sito de Il Giornale.

Pasta e fagioli per tutti


Mille, anche millecento euro al mese garantiti a tutti i precari, incentivando le aziende ad assumere e a pagare di più (bene), ma anche (sic!) garantendo l'integrazione dove lo stipendio non sia sufficiente a essere capienti (male, malissimo, peggio di così si muore). Ma come? La rivolzione democratica di W. sono i mille euro "politici" (come il 6 o il 18)? Sono questi la meritocrazia, il mercato del lavoro (che così viene distorto), il risparmio di risorse pubbiche che il Pd prometteva? Perché se si offre l'opportunità alle aziende, con sgravi risibili, di continuare a pagare poco perché tanto chi ci mette il resto è lo Stato, si creeranno diverse conseguenze: gli stipendi rimarranno bassi perché gli incentivi non saranni sufficienti a controbilanciare l'inevitabile (almeno nel medio periodo) innalzamento delle tasse per consentire allo Stato di pagare milioni d ministipendi a dipendenti non pubblici, chi è precario cercerà di rimanere tale perché, tutto sommato, rischia di avere un tempo indeterminato a 800 euro mensili e non ci sarebbe ragione di rinunciare ai 2-300 euro che lo Stato-mamma di W. ti passa per il solo fatto di restare "bamboccione" e con i quali ti paghi la rata della macchina. Ma cosa c'era da aspettarsi da uno che fa un discorso e lo intitola "per il bene dell'Italia" con la solita presunzione di sapere, lui pubblico amministratore, cos'è meglio per i cittadini che lo devono votare e poi assegnargli una delega in bianco per cinque anni?

mercoledì 13 febbraio 2008

L'ha detto lui (ma potevo dirlo pure io)

''Allearsi con Di Pietro ed escludere i socialisti e' una decisione che non avrebbe bisogno di commenti''. Lo afferma Enrico Boselli, leader del Partito socialista. ''E' evidente - conclude - che se l'obbiettivo e' quello di cancellare i socialisti, Veltroni ha trovato in Di Pietro un ottimo compagno di strada''.

Bocce (quasi) ferme

Vabbè, abbiamo capito. L'Udc balla da sola, con Casini candidato premier "inutile" (copyright Cav.). Il Pd getta il coraggio, la socialdemocrazia garantista e tutto il nuovo che avrebbe potuto (slogan a parte) alle ortiche e imbarca Di Pietro e le toghe rosse. Auguri. Con il prevedibile formarsi d'un piccolo grande centro del 5-6 per cento (se va bene) con Udc, Udeur e Libertà e Solidarietà (sarò l'unico che si ricorda il nome vero della Rosa Bianca) che farà la fine politica del MoDem di Bayrou, l'unica vera novità di queste elezioni che avvieranno la transizione alla Terza Repubblica sarà la nascita (sembra e si spera) di un grande partito di massa liberale, liberista e solo implicitamente cristiano. Il Pdl può essere la rivoluzione copernicana della politica italiana, la rottura dal duopolio degli statalismi (cattofascista e cattocomunista) che hanno distrutto lo Stato sorto dall'unica vera rivoluzione (non a caso, liberale) che il nostro Paese abbia mai conosciuto: il Risorgimento. Noticilla sui cristiani in politica: finalmente cominceremo a notarli, se ci sono, per quello che faranno, non per le insegne sotto le quali militeranno, visto che sono destinate a scomparire.

martedì 12 febbraio 2008

Boom vitale


Nell’America dei diritti civili c’è un diritto che viene celebrato ogni anno con una giornata particolare: il diritto a nascere perché la vita è “santa”. A istituire la giornata per la santità della vita umana (“National Sanctity of Human Life Day”) non è stato però il cristiano rinato Bush, ma uno dei suoi predecessori più popolari e meno discussi dalla sinistra di oggi. Nel 1984, Ronald Reagan era al termine del suo primo mandato presidenziale. Di lì a qualche mese avrebbe affrontato la campagna elettorale per la rielezione e la decisione di schierare la presidenza sul fronte pro life poteva rivelarsi un azzardo. Il 22 gennaio di quell’anno, Reagan decise lo stesso che l’undicesimo anniversario della sentenza “Roe vs. Wade” della Corte suprema – quella che aveva legalizzato la pratica delle interruzioni di gravidanza negli Stati Uniti dichiarando incostituzionali le leggi antiabortiste adottate in alcuni stati – andasse “festeggiato” ricordando il valore della vita umana a partire dal suo concepimento. Il presidente repubblicano, nel suo discorso, ricordò come “il primo dei ‘diritti inalienabili’ citati nella Dichiarazione di indipendenza” fosse proprio il diritto alla vita, “un diritto che secondo la Dichiarazione è stato dato dal Creatore a tutti gli esseri umani, che siano essi giovani o anziani, deboli o forti, in buona o in cattiva salute”. “Dal 1973 invece – disse Reagan – più di 15 milioni di bambini sono morti a causa di aborti legali, una tragedia di dimensioni straordinarie che contrasta tristemente con la nostra convinzione che ogni vita sia sacra. Questi bambini, dieci volte i caduti in tutte le guerre affrontate dalla nostra nazione, non rideranno mai, non canteranno, non faranno mai l’esperienza gioiosa dell’amore umano. L’aborto li ha privati del loro primo e basilare diritto di esseri umani e noi siamo infinitamente più poveri a causa di questa perdita e non soltanto per il loro mancato contributo, ma per l’erosione del senso di valore e dignità che dovremmo riservare a ciascun individuo”. Da allora, la terza domenica di gennaio è stata dedicata da tutti i presidenti (con l’eccezione di Bill Clinton) alla celebrazione della santità della vita umana. Bush ha aspettato il termine del suo primo anno di presidenza per riprendere la tradizione e da allora – nonostante le contestazioni – ha continuato. Domenica 20 potrà annunciare la miglior notizia del suo secondo mandato: l’inizio di un boom demografico paragonabile a quello degli anni Cinquanta.
Gli ultimi dati statistici disponibili, ripresi ieri dall’Associated Press, dicono che in America nascono sempre più bambini. Nel 2006 in tutto il paese si sono registrati 4,3 milioni di parti, un record che riporta alle cifre del 1961, uno degli ultimi anni dei “baby boomers”. Un quarto delle nuove nascite è riconducibile al continuo espandersi della prolifica (e cattolicissima) comunità ispanica, ma stando ai dati sono tutte le componenti etniche statunitensi ad aver figliato di più. I minimi storici degli anni Settanta (registrati proprio a ridosso della sentenza “Roe vs. Wade”) sembrano lontanissimi. E sembrano lontani anche gli altri paesi industrializzati alle prese con tassi di natalità prossimi allo zero. I fattori di questa esplosione demografica sarebbero parecchi. La ricerca cita, tra le altre ragioni, “il minor uso di contraccettivi” e “la riduzione degli aborti”. Secondo Nan Marie Astone, docente di Demografia e riproduzione alla Johns Hopkins University, c’è però un innato attaccamento alla vita degli statunitensi alla base del boom di nascite: “Agli americani – ha spiegato all’Ap – i bambini piacciono. Noi siamo quelli che, quando le cose vanno bene economicamente, diciamo subito ‘facciamo un altro figlio’”. E se il New England liberal e pro choice anche nei numeri assomiglia all’Europa quasi senza più culle, negli stati evangelici del Midwest e del sud i fiocchi azzurri e rosa sono sempre più frequenti. Diceva Thomas Jefferson che “la cura della vita umana e della felicità e non la loro distruzione sono il primo e unico fine legittimo di un buon governo”. E’ la lezione americana, quella impartita da chi fa l’amore e non l’aborto.
Alan Patarga

(© Il Foglio, 17 gennaio 2008)

La moratoria al cinema


C’è un film, in America, che sta facendo molto più di qualunque moratoria. Senza modificare alcuna legge, senza riaprire dibattiti, sta riuscendo dove decine di gruppi pro life spesso falliscono: nel convincere tante donne a non abortire coinvolgendole emotivamente. Il film si chiama “Bella”, è diretto dal regista Alejandro Monteverde e ha vinto il People’s Choice Award al Toronto Film Festival del 2006 e poi è rimasto un anno senza distribuzione. Il protagonista della pellicola, che è anche il principale produttore, è il giovane attore messicano Eduardo Verastegui, ex star delle telenovelas trasferitosi da qualche anno a Hollywood. Qualche commedia “spanglish”, tanti cliché sui “latinos” e poi una conversione, religiosa e artistica: “Il successo mi stava dando tante cose materiali ma dentro mi sentivo vuoto. Soprattutto, mi sembrava ingiusto continuare ad accettare ruoli mortificanti per la mia gente e sprecare così il dono della recitazione che Dio m’aveva fatto”. Di famiglia cattolica, Verastegui è tornato alla fede e ha scelto di fondare una piccola casa di produzione indipendente, la Metanoia, per promuovere il suo progetto: realizzare film in grado di raccontare storie verosimili e di trasmettere valori positivi. “Bella” è stato il primo esperimento. La vittoria a Toronto, che in passato era toccata a pellicole di primo livello come “Momenti di gloria” o “Hotel Ruanda”, non ha spianato la strada per la distribuzione. La storia di una giovane donna single incinta (interpretata dall’attrice televisiva Tammy Blanchard) che, aiutata da un nuovo amico (Verastegui, cuoco ed ex calciatore), rinuncia ad abortire pur essendo rimasta senza lavoro non rientrava negli stereotipi hollywoodiani. Le porte delle grandi multisala sono rimaste sprangate. “Bella” è stato proiettato in poco più di centocinquanta sale in tutti gli Stati Uniti a partire dalla fine di ottobre: dopo due settimane erano diventate quattrocentosessanta perché, a decine, i gruppi antiabortisti avevano attivato un passaparola tale da obbligare gli esercenti ad affittare loro gli spazi per visioni “private”. Lo stesso Verastegui ha preso parte a proiezioni organizzate da associazioni come il Family Research Council e Focus on Family. La critica, a partire dalla recensione del New York Times firmata da Stephen Holden, è stata tutt’altro che tenera, eccezion fatta per le riviste vicine ai gruppi pro life, ma in quattro settimane gli incassi sono stati di oltre cinque milioni di dollari e tanto sul portale Yahoo che sul sito Internet specializzato Fandango la pellicola è stata la più votata dal pubblico americano.
A un incontro organizzato a Nashville a novembre l’attore ha però raccontato l’altra faccia del successo del film: “E’ stato sorprendente – ha spiegato – ricevere così tante e-mail e lettere di giovani donne che hanno deciso di annullare appuntamenti già presi per abortire per il solo fatto di aver visto ‘Bella’ e che hanno tenuto il loro bambino”. Intervistato dall’American Family Association Journal, Verastegui ha anche raccontato di come, durante la realizzazione del film, sia riuscito personalmente a convincere due donne a far nascere i figli che portavano in grembo: “Stavo preparando il mio lavoro di ricerca come fa qualsiasi attore prima di girare un film – ha spiegato l’attore e produttore – Essendo la storia di un aborto, mi recai in una di quelle cliniche in cui si praticano le interruzioni di gravidanza a Los Angeles. Pensavo di andar lì, fermare una donna all’entrata e farle un paio di domande. Mi trovai di fronte una schiera di ragazze di 15 o 16 anni in attesa di abortire. Rimasi senza parole, non sapevo cosa fare. Da un gruppo di persone vennero fuori alcuni messicani che mi riconobbero perché qualche anno prima ero stato una star delle telenovelas e mi dissero che c’era una ragazza del mio paese che non parlava bene inglese che stava per abortire. Erano attivisti di un gruppo pro life e pensavano fossi uno di loro. Andai dalla ragazza, che sembrava intimidita perché m’aveva riconosciuto. Con lei c’era il suo fidanzato. Parlammo della vita, della fede, dei sogni, del Messico, del cibo, di tante cose. Le diedi un orsacchiotto (la scena è stata ripetuta nel film, ndr) e il mio numero di cellulare, lei se ne andò”. Qualche mese dopo, una telefonata: “Era il compagno di quella ragazza – ha raccontato Verastegui – voleva chiedermi se potevano dare il mio nome, Eduardo, al loro bambino, nato il giorno prima. Sono andato a trovarli e non so spiegare cosa ho provato nel tenere quel piccolo tra le mie braccia”. Verastegui ci ha riprovato qualche mese più tardi, quando la pellicola aveva già vinto a Toronto ma non era ancora arrivata nei cinema. “Ho saputo che una ragazza della comunità ispanica di Miami voleva abortire. Siamo andati da lei e le abbiamo mostrato il film. Alla fine, lei ha alzato il telefono e ha cancellato l’appuntamento con la clinica”. Quella bambina è nata qualche settimana più tardi. La sua mamma l’ha chiamata Bella.
Alan Patarga

(© Il Foglio, 5 gennaio 2008)

lunedì 11 febbraio 2008

Terza repubblica. Ma sembra il Regno

Da una parte un'alleanza snella e "fusionista" tra un grande partito liberalmoderato come il Pdl e una forza politica radicata sul territorio e favorevole al federalismo come la Lega Nord. Dall'altra parte, un partito di ispirazione socialdemocratica a vocazione maggioritaria, il Pd, libero dai condizionamenti dell'ideologia marxista della quale la sinistra europea è succube da oltre cent'anni. In mezzo, un minicentro esplicitamente confessionale in via di dismissione. L'uscita dei cattolici "in quanto tali" (è bene ricordarlo: fede vissuta a parte, culturalmente siamo tutti cristiani, in Italia) dalla scena politica e la marginalizzazione della sinistra comunista, due fatti che si stanno verificando in questi giorni, potrebbero finalmente sancire la fine dell'anomalia politica italiana, quella che dal tramonto dello Stato liberale postunitario ha visto avvicendarsi al potere (o nella sua anticamera) forze clericali o socialisteggianti (fascismo compreso) dalla forte matrice antisistema. Per la prima volta, potremmo trovarci in un quadro politico in cui gli eredi di Sturzo e quelli di Gramsci conteranno poco o nulla nella politica italiana, mentre una grande destra e una grande sinistra, entrambe liberali, si contenderanno il governo del Paese. Come cavouriani e rattazziani. La chiameranno di sicuro Terza Repubblica. A me sembra tanto (fortunatamente) un ritorno alle origini che, è bene ricordarlo, conobbero anche le larghe intese. Allora lo chiamarono "Connubio", oggi si direbbe "Grosse Koalition".

domenica 10 febbraio 2008

Pronostico

In base alle alleanze per come si profilano ora (eccetto quella Udc-Udeur-Rosa Bianca che ipotizzo io):

Pdl (Fi+An) 42
Lega 5

La Destra 1,5

Udc-Udeur-Rosa Bianca 4,5

Pd 33

Ps 1

Idv 3

Cosa Rossa 9

Radicali 1


Risultato in Parlamento:

Pdl 52%
Lega 3%
Cosa Bianca 2%
Pd 38%
Sinistra Arcobaleno 5%

sabato 9 febbraio 2008

Yes, we spend


Washington. Nella campagna per le primarie c’è un vecchio luogo comune che si conferma certezza: il partito della spesa è quello democratico. Sarà che i repubblicani, al governo da due mandati, hanno già trovato tutti i modi a loro congeniali di impegnare i fondi pubblici, o sarà forse che la sinistra – in vistosa astinenza da potere – non vede l’ora di redigere un bilancio federale con parametri tutti suoi, fatto sta che da una ricerca condotta dagli analisti economici della National Taxpayers’ Union Foundation emerge che una presidenza democratica potrebbe rivelarsi assai più “dispendiosa” della già non troppo parsimoniosa Amministrazione Bush. Lo studio analizza le promesse fatte dai candidati dell’uno e dell’altro partito. I dati sono preceduti da un avvertimento: spesso l’esperienza ha insegnato che le promesse elettorali non sono mantenute, mettono le mani avanti i ricercatori. A giudicare dai risultati dello studio, non è detto che possa essere un male per gli statunitensi, considerato che agli aumenti di spesa pubblica corrisponderebbe inevitabilmente un inasprimento fiscale.
Quello che sulla carta promette di attingere più spesso all’erario pubblico è Barack Obama. Stando alle valutazioni dell’organizzazione dei contribuenti, infatti, il senatore dell’Illinois ha promesso che, una volta eletto, cercherà di far approvare al Congresso nuove spese per circa 287 miliardi di dollari, molte delle quali andrebbero a coprire i costi di nuove infrastrutture (circa 105 miliardi) e quelli per il potenziamento del sistema sanitario (più 100 miliardi). Secondari gli aumenti di spesa proposti per l’istruzione (più 30 miliardi) e la sicurezza nazionale (più 14 miliardi). Obama è in buona compagnia. Subito dietro, nella classifica dei “big spender” c’è Hillary Clinton. L’ex first lady ha ipotecato un aumento degli investimenti pubblici di poco inferiore a quello di Obama: circa 218 miliardi di dollari. Le sue voci di spesa preferite sono la sanità, suo vecchio amore (più 113 miliardi) e la sicurezza interna (più 105). A prendere per buoni i dati della Taxpayers’ Union, la mania della spesa pubblica accomunerebbe democratici e social conservatives come l’ex governatore dell’Arkansas e pastore battista, Mike Huckabee, e l’ex attore ormai ritiratosi dalla corsa Fred Thompson, che per attuare i loro programmi avrebbero bisogno di maggiori fondi pubblici, rispettivamente, per 54 e 56 miliardi di dollari. Tanto l’uno quanto l’altro avrebbero impegnato questi fondi, se eletti, per potenziare il sistema di difesa nazionale e la rete diplomatica degli Stati Uniti.
I big del Grand Old Party rientrano però tutti, chi più chi meno, nella casistica opposta, con la parziale eccezione di Mitt Romney, che avrebbe impegnato 40 miliardi di dollari in più per la difesa nazionale. L’ex governatore del Massachusetts, che ieri ha sospeso la propria campagna, aveva anche proposto tagli per circa 20 miliardi. L’attuale frontrunner, il senatore John McCain, spenderebbe in tutto meno di sette miliardi di dollari in più rispetto al bilancio federale 2007 e spalmerebbe le spese un po’ su tutti i settori della pubblica amministrazione, dall’istruzione alla sicurezza nazionale. Il suo ex rivale e ora principale sponsor, l’ex sindaco newyorchese Rudy Giuliani, avrebbe fatto di meglio, tagliando la spesa di oltre un miliardo e mezzo di dollari. Il sindaco d’America avrebbe concentrato gli sforzi di risanamento tagliando una piccola parte della spesa sanitaria e combattendo gli sprechi della pubblica amministrazione, con tagli per oltre 25 miliardi di dollari. Meglio di lui, se finisse alla Casa Bianca, potrebbe fare soltanto il candidato dell’ala libertaria del Partito repubblicano, quel Ron Paul che non ha paura di dire che lo stato è il principale nemico del cittadino statunitense. Con lui presidente, la spesa pubblica si ridurrebbe di circa 150 miliardi perché privatizzerebbe completamente l’istruzione, taglierebbe i sussidi all’agricoltura e ritirerebbe le truppe americane da tutti i teatri di crisi nel mondo.

(© Il Foglio, 8 febbraio 2008)

venerdì 8 febbraio 2008

Geniale


La copertina dell'Espresso è la più bella di tutte.

martedì 5 febbraio 2008

Petraeus-Thomas '12

Guardiamo avanti, che è meglio. Non c'è nemmeno da aspettare l'esito del Super Tuesday per capire che nessuno dei quattro potenziali prossimi presidenti degli Stati Uniti prometta molto di buono. Certo, c'è il peggio (Hillary e Romney) e il meno peggio (Obama e McCain) e alla fine il vecchio eroe del Vietnam potrebbe anche essere un buon commander in chief. Però il dream ticket è un altro, ed è formato da un generale che ha vinto la guerra che tutti davano per persa e da un giudice nero che pensa come un bianco e parla di diritto come un vero americano. Ma se ne riparlerà tra quattro anni. Forse.

Forti venti di business


I numeri dicono che è stato l’anno dei successi. Anzi, il miglior anno di sempre: circa “634 megawatt di potenza installata e 4,3 terawattora di energia prodotta, pari al consumo di 4,5 milioni di italiani e quattro milioni di tonnellate di CO2 risparmiate”. I dati sono quelli annunciati un paio di settimane fa dall’Anev, l’associazione dei produttori di energia del vento che, presentando i risultati relativi al 2007, ha anche puntato il dito contro “tutti gli ostacoli posti da chi tenta di ritardare la diffusione delle rinnovabili”. Messa così, la battaglia dei contrari allo sviluppo indiscriminato dell’energia eolica in Italia sembra una crociata di retroguardia contro lo sfruttamento delle fonti di energia alternativa, una battaglia – è il caso di dire – contro i mulini a vento, magari portata avanti dalla lobby del petrolio. Lo schema, però, è rispettato soltanto a metà: perché se da una parte c’è l’Anev che, pur essendo un’associazione di imprenditori, vanta (forse unica) ottimi rapporti con i Verdi e Legambiente, dall’altra c’è un fronte composito che va dagli scettici sulle potenzialità delle rinnovabili agli ecologisti di Italia Nostra e di parecchie associazioni ambientaliste locali.
Sono stati questi ultimi, l’estate scorsa, a vincere una delle battaglie più difficili contro il business del vento, che in Italia conta una fetta considerevole (ma non maggioritaria) dei 30 miliardi del giro d’affari europeo per l’intero settore e l’appoggio dell’ambientalismo che conta. Ciononostante, il Tar di Firenze lo scorso luglio ha dichiarato illegittimo il parco eolico inaugurato poche settimane prima a Scansano, in piena Maremma, a due passi dai filari del Morellino e da un castello dell’Undicesimo secolo. Il ricorso l’avevano presentato il proprietario del maniero, Jacopo Biondi Santi (discendente degli “inventori” del Brunello di Montalcino e rinomato produttore vinicolo) e la stessa Italia Nostra che, a corredo della notizia della sentenza, aveva diramato un comunicato in cui si spiegava come “in un paese come l’Italia, molto densamente abitato e ricco di storia e di monumenti, non si può fare l’eolico industriale impiantando macchine gigantesche se non forzando costantemente le norme di tutela paesaggistica e ambientale. La vicenda di Scansano diventa così emblematica di tante altre vicende meno conosciute. Quasi ovunque infatti le autorizzazioni a costruire le torri eoliche vengono date in violazione della legalità, o comunque forzandola. Spesso si sono fatte misurazioni del vento o valutazioni di incidenza risibili. E sulla base di questo si è autorizzato lo scasso di un paesaggio. Se si poteva violare il paesaggio di Scansano, si sarebbe varcato ogni limite. Si poteva continuare a uccidere il paesaggio toscano. E nessuno avrebbe frenato la corsa all’eolico nel sud. Sarebbe stato un Far west”. La risposta stizzita di Legambiente, che parlava di “posizione elitaria” e volta a “negare le ragioni stesse dell’ambientalismo”, sarebbe arrivata poche ore più tardi.
Una cosa sembra però certa: che, come dice Italia Nostra, il caso di Scansano sia in realtà la punta dell’iceberg del milionario business che, soprattutto, soffia forte nell’Italia meridionale.
La frontiera del vento, in questo senso, sembra essere la Puglia, negli ultimi anni diventata terra di conquista delle aziende che hanno deciso di far utili facendo girare le pale e ricavandone energia elettrica. L’epicentro è la provincia di Foggia. Da quelle parti il fenomeno lo hanno ribattezzato già “pala selvaggia”. Qualcuno fa notare le contraddizioni di un’area, la Capitanata appunto, che vanta allo stesso tempo il maggior numero di parchi eolici d’Italia e la più elevata densità di aree protette destinate a parco naturale. A Ponte Albanito, nei pressi del capoluogo, da tempo si discute sull’opportunità di approvare un parco di smisurate torri del vento alte centodieci metri. Sulla stessa direttrice, a Troia, il comune può vantare un piccolo record, quello delle autorizzazioni alla costruzione di impianti eolici concesse: centocinquanta, una più una meno. Lì l’amministrazione è di centrodestra, a Ponte Albanito a governare è il centrosinistra. I dubbi e le polemiche, però, sono gli stessi. Così come i proventi derivanti dalle concessioni.
Quello delle pale eoliche, prima ancora che per i produttori, è infatti un business per i comuni, che incassano royalty direttamente commisurate al fatturato degli impianti: si va dall’1,3 a più del 2 per cento in media, dicono all’Anev, ma i gruppi più agguerriti promettono fino al 15 per cento pur di veder evasa la pratica, salvo poi rivendere l’autorizzazione per centinaia di migliaia di euro a gruppi in grado di gestire gli impianti. Gli esperti valutano che un impianto di media potenza costituito da una sola pala produca un margine lordo di oltre due milioni e mezzo di euro. E impianti da un’unica torre non esistono da nessuna parte. Fare i conti non è difficile. Nel grande gioco del vento, però, i comuni non sono i soli a guadagnare: guadagnano, e subito, gli agricoltori e i proprietari terrieri in genere che accettano di privarsi per 25 o 30 anni di parte dei loro possedimenti per consentire l’erezione dei giganti del vento. I dati dicono che l’affitto ai colossi dell’eolico frutti dai tre ai cinquemila euro al chilowattora, ossia sei volte più della “integrazione comunitaria” per la produzione del grano. Chi continua a curare le colture dopo aver detto sì alle pale, insomma, probabilmente fa l’agricoltore più per passione che per guadagnare. Eppure, nonostante le laute percentuali elargite a comuni e proprietari terrieri, le aziende del settore benedetto dall’ambientalismo militante continuano a macinare utili. Il trucco c’è e porta il nome di “certificato verde”.
I certificati verdi sono un’invenzione della legge Bersani del 2000, mai messa in discussione dal ministero dell’Ambiente sotto la gestione Matteoli e sfruttata alla sua massima potenzialità durante quella di Alfonso Pecoraro Scanio, che era il titolare del medesimo dicastero anche ai tempi dell’approvazione della normativa. Si tratta del sistema di incentivi statali per la produzione di energia eolica in Italia: uno studio di Nomisma Energia sostiene siano essi a far sì che un mulino a vento hi-tech risulti redditizio per chi lo gestisce. Chi critica la gestione del business del vento dice invece che esso, per quanto deprecabile soprattutto sul piano dell’impatto estetico sui territori interessati, potrebbe reggersi sulle proprie gambe senza il bisogno dei fondi pubblici. Il sistema, nel suo complesso, è piuttosto intricato: secondo la legge Bersani, a partire dal 2002 tutti i produttori di energia del paese devono immettere in rete un quantitativo di energia elettrica prodotta da fonti rinnovabili pari ad almeno il 2 per cento di quanto prodotto da fonti tradizionali (in genere, fossili combustibili). Possono farlo direttamente, costruendo e gestendo impianti solari o eolici, o acquistando il “certificato verde” da chi quell’energia pulita l’ha prodotta davvero. Il produttore di energia rinnovabile, pertanto, incassa due volte: vende l’energia elettrica che produce a prezzi di mercato al gestore della rete (circa sei centesimi al chilowattora) e vende pure i “certificati verdi” ai produttori che utilizzano fonti convenzionali a un prezzo addirittura superiore a quello dell’energia reale (circa dodici centesimi al chilowattora). Il risultato è un guadagno di oltre 18 centesimi al chilowattora che spiega meglio di qualunque altro dato la corsa all’eolico degli ultimi anni. Che è, addirittura, una corsa alla realizzazione di impianti con un coefficiente di produttività relativamente basso (al di sotto cioè dei sei metri al secondo di velocità media annua del vento) che in altri paesi europei capofila nello sviluppo dell’energia eolica – Danimarca, Germania e Regno Unito – non verrebbero nemmeno progettati. Ma in quei paesi il sistema degli incentivi statali è meno premiante di quello italiano e non compensa, da solo, l’assenza dei requisiti minimi di mercato.
In Italia il grosso degli impianti è disseminato sui crinali appenninici e, in generale, al centro-sud. In Puglia, in Campania e in Sicilia c’è la maggior concentrazione di torri del vento, alcune alte fino a 140 metri. Tanto per fare un esempio, tra il 2006 e il 2007 una delle società leader del settore, Alerion, ha acquistato direttamente o per il tramite di società partecipate gli impianti di Eolo srl e parte di quelli di Dotto srl in Campania (per un totale di quasi duecento megawatt autorizzati e altrettanti in fase di autorizzazione). Altri 60 milioni di euro sono stati spesi dalla stessa società per l’acquisizione di un campo eolico in Sicilia da 36 megawatt, di un altro in Puglia da 34, altri impianti ancora in Sicilia tra l’Agrigentino e il comune di Vizzini, nel Trapanese, e a Lacedonia, nell’Avellinese. Il risultato sono centinaia di milioni di euro finanziati con project financing in poco più di dodici mesi: investimenti faraonici che soltanto il sistema dei certificati verdi riesce a giustificare. La redditività del settore, che pure c’è, non potrebbe compensare mai spese simili, anche in considerazione dell’esiguo apporto della rete eolica al fabbisogno energetico del paese: assai meno dell’un per cento. Eppure, nei documenti stilati dal ministero dell’Ambiente, negli appelli di Legambiente e negli studi condotti in tandem dall’Anev e da Greenpeace, la realtà appare un’altra. “Colpisce il fatto che l’Università di Utrecht valuti 24 terawatt (12 mila megawatt) il potenziale tedesco e 69 (34.500 megawatt) quello italiano”, scrivevano nel 2005 i responsabili del dipartimento Politiche della sostenibilità dei Ds, guidato dall’ex ministro dell’Ambiente, Edo Ronchi, fresco transfuga dai Verdi. Nello stesso studio si ipotizzava “un’occupazione potenziale di 18 mila addetti nell’intero Mezzogiorno” e si magnificava il miracolo economico ed energetico che l’eolico avrebbe a breve garantito. Per Domenico Colante, responsabile per tredici anni del dipartimento Fonti rinnovabili dell’Enea, un tempo sostenitore e oggi critico dell’eolico, il messianismo che circonda questa e altre energie alternative è fuori luogo. Intervistato tre mesi fa da Panorama, Colante ha ricordato come “nel Piano energetico nazionale 1988, l’Enea prevedeva l’installazione di pale eoliche per massimo di 600-1.000 megawatt, rispettando le zone paesaggisticamente pregiate. Oggi siamo a 1.800 megawatt e si vuole arrivare a 8-10 mila. E’ assurdo: se le mettessimo in fila, avremmo 2.700 chilometri di torri eoliche in un paese che è lungo al massimo 1.200 chilometri. Uno scempio ambientale senza precedenti. E oltretutto non risolveremmo il problema energetico: ottomila megawatt di potenza installata produrrebbero 16 terawattora di elettricità, che coprirebbero sì e no il 4,5 per cento del fabbisogno elettrico nazionale. Ridurremmo le emissioni di anidride carbonica solo dell’1,5 per cento. Ci conviene giocarci ambiente e paesaggio per così poco?”.
Le cronache di questi mesi raccontano purtroppo anche altri aspetti del business del vento. Nei giorni scorsi il Quotidiano della Calabria ha raccontato delle due inchieste aperte dalle procure di Catanzaro e di Paola sulla gestione delle pratiche per autorizzare impianti eolici nella regione. Nel capoluogo, la Guardia di finanza ha concluso le indagini che hanno portato alla denuncia di due funzionari regionali per falso e abuso d’ufficio. I due, secondo le risultanze dell’inchiesta, avrebbero concesso il loro assenso alla realizzazione di un parco eolico a Caraffa, nel Catanzarese, nonostante il parere contrario della locale amministrazione comunale. L’altra inchiesta riguarda invece un campo di torri del vento a Isola Capo Rizzuto, a pochi chilometri da Crotone, il cui iter autorizzativo sarebbe stato viziato da irregolarità.
Il fenomeno non sarebbe soltanto italiano. Quattro anni fa un’inchiesta del settimanale tedesco Der Spiegel ha messo in luce sprechi, corruzione e criminalità organizzata legati al ciclo dell’energia eolica colpevole – secondo il periodico – di una “distruzione del paesaggio altamente sovvenzionata” che si reggerebbe soltanto grazie a una rete diffusa di corruttela e a dispetto di qualunque bilancio in rosso. Da quelle parti la chiamano già eolomafia.
Alan Patarga

(© Il Foglio, 2 febbraio 2008)

Così il genero perfetto ha ideato la grande truffa di Francia


Parigi. Sguardo penetrante, faccia pulita da ragazzo cresciuto nella provincia, un ottimo lavoro in una delle più grandi banche francesi e la passione per i bambini, ai quali insegnava le mosse di judo. Jérôme Kerviel sarebbe stato la gioia di qualunque suocero o aspirante tale. E’ diventato, suo malgrado, l’uomo di cui tutta la Francia non riesce a non parlare (persino più del presidente Nicolas Sarkozy) e una star del web. E’, la sua, la banalità dei derivati bancari, del soldo facile che puoi fare se hai un lavoro rispettabile e ci sai fare con i numeri e con il computer, e se il sistema di controlli della banca in cui lavori è talmente oliato da poter essere eluso. E’ la storia di un ambizioso monsieur Travet di 31 anni che decide di frodare Société Générale e le causa cinque miliardi di euro di perdite e che, scoperto, si chiude in una stanza con i suoi superiori e ce li tiene tutto il sabato notte per convincerli che no, lui non voleva frodarli, lui voleva sperimentare un nuovo sistema di investimenti che “avrebbe fatto arricchire enormemente la banca”. Chissà se ci credeva davvero, Jérôme, o se la sua era soltanto l’ultima recita.
Gli amici d’infanzia, rintracciati in un villaggio dimenticato della Bretagna, Pont-l’Abbe, dicono che il giovane trader fosse cambiato dopo la morte del padre, circa un anno fa. E forse anche il fallimento di un matrimonio “due o tre anni fa” aveva contribuito a cambiare il carattere di quel ragazzo che abitava in un appartamento a Neully-sur-Seine, il sobborgo parigino di cui Sarkozy era stato sindaco negli anni Ottanta. Ma i vicini di casa non lo vedevano mai (“tornava tardi, era sempre al lavoro”), lui non parlava con nessuno. Anche con i colleghi gli scambi di vedute erano pochi. Al limite, il trader bretone con una laurea ottenuta in un’università di provincia era conosciuto per la sua abilità al computer. “Era quasi un hacker”, dicevano ieri i colleghi. “Abbiamo a che fare con un genio della truffa”, ha detto pure il governatore della Banca di Francia, Christian Noyer, e magari l’ha detto pure per mascherare l’imbarazzo suo e della banca frodata. Perché quando un dipendente di seconda fila come Kerviel riesce a gestire futures sugli indici di Borsa per 50 o 60 miliardi di euro, i casi sono due: o è un genio o il sistema di controllo è un colabrodo.
La spiegazione ufficiale fornita dai vertici di Société Générale, e che l’inchiesta disposta dalla banca centrale francese per appurare le responsabilità dovrà verificare, lascia emergere una situazione surreale: quella di un giovane e sconosciuto bancario di secondo, se non di terzo piano che – grazie alle sue capacità informatiche – riesce a beffare cinque linee di controllo interno, crea un canale di investimenti parallelo a quello ufficiale della banca, punta a suo piacimento sui titoli che a suo avviso possono essere più remunerativi con i garantitissimi futures “plain vanilla” e che, a dispetto dell’elevato concetto che ha di sé e delle sue strategie da trader, comincia a perdere soldi su soldi, molti più di quanti il suo ufficio possa gestire in un anno. Quasi più di quanto sia la capitalizzazione dell’intera banca. E per coprire le perdite, come ogni cattivo giocatore, continua a rilanciare nella speranza che una mano fortunata lo ripaghi dell’azzardo precedente.
La mano fortunata di Jérôme Kerviel non è arrivata mai. Venerdì scorso, dopo undici mesi (così dicono le prime risultanze di indagine) di scommesse finanziarie proibite con i soldi della sua banca, è arrivato invece il passo falso che – secondo la ricostruzione fornita alle autorità di controllo – ha consentito ai suoi superiori di scoprire la più grande truffa bancaria di tutti i tempi. Un errore veniale, il suo, un passaggio dimenticato che ha lasciato attivo il sistema informatico della banca ideato per scongiurare avventure come la sua. S’era sempre ricordato di disattivarlo, fino a venerdì. Quando i responsabili di SocGen si sono resi conto dell’accaduto hanno segnalato l’anomalia alla Banca di Francia e hanno istituito una task force interna per scoprire chi, tra i dipendenti, avesse tradito la fiducia dell’azienda. Di quella squadra, si racconta, faceva parte anche Jérôme. Il doppio gioco è durato poche ore, fin quando il giovane trader non ha potuto far altro che tentare la carta della sua genialità per convincere i suoi superiori che la sua fosse un’opera di bene.

I dubbi sulla banca
La ricostruzione di SocGen non convince tutti. L’impressione che “la banca abbia ingigantito la malversazione di Kerviel per nasconderne altre” – come diceva ieri l’economista Elie Cohen – e che possa aver usato il trader come capro espiatorio qualcuno ce l’ha. La reazione repentina, quasi irrazionale, dei vertici della banca francese sembra deporre contro questa tesi, perché la scelta di rivendere subito le partite accumulate dal trader a prescindere dalle condizioni del mercato, che lunedì erano pessime, ha causato perdite ancor più ingenti alla società. Il dubbio però rimane. Come rimangono le ombre sull’operato della Banca di Francia, che ha reso noto l’episodio mercoledì pur avendo appreso della storica truffa ai danni di Société Générale fin da domenica. Sulla stampa francese, in due giorni, le voci sulle possibili dimissioni del governatore Noyer si sono moltiplicate, per non parlare di quelle sul possibile passaggio di mano di SocGen, che però “ha le spalle sufficientemente larghe per superare questa prova”, ha ribadito proprio il numero uno della banca centrale transalpina. Le perdite miliardarie annunciate giovedì da Société Générale hanno però messo a dura prova il sistema finanziario globale, in particolare quello europeo, e hanno anche sottoposto a un ulteriore test la politica francese e la pazienza del presidente, Nicolas Sarkozy, e del primo ministro, François Fillon. Il ministro delle Finanze, Christine Lagarde, sta cercando di ricostruire al meglio quanto è successo lo scorso fine settimana, quando SocGen ha scoperto le decine di miliardi di euro di posizioni scoperte. Forse, si chiedono ora molti osservatori, Noyer avrebbe dovuto avvisare prima il governo. Ieri Fillon ha sottolineato il fatto che, in quanto privata, Société Générale non era tenuta a comunicare all’esecutivo la situazione nella quale versava. Il braccio di ferro tra autorità politiche e bancarie sembra però soltanto all’inizio. Banchieri londinesi e tedeschi sottolineano la gravità dell’accaduto. Dicono che Noyer, ovvero un membro del consiglio della Banca centrale europea, pur sapendo dei problemi di un istituto delle dimensioni di SocGen ed essendo a conoscenza della possibilità di un taglio dei tassi di interesse della Federal Reserve (avvenuto poi martedì) non sia intervenuto in qualche modo. E dicono che, così facendo, abbia messo un macigno sulla possibilità che venga messo a punto a breve un consiglio generale di supervisione bancaria a livello europeo.

(© Il Foglio, 26 gennaio 2008)

La parola con la R

Washington. Non succedeva dal 1982 che la Fed abbassasse i tassi di interesse di tre quarti di punto in un sol giorno. E’ successo di nuovo ieri mattina, quando il governatore della Banca centrale americana ha fatto diffondere un comunicato in cui rendeva nota la decisione di abbassare il costo del denaro di 0,75 punti percentuali. Con il tasso di riferimento sui Fed Funds al 3,5 per cento, quello di sconto al 4 e l’indicazione di aver agito “a fronte di un indebolimento dell’economia e dei rischi per la crescita”, come recitava la nota diffusa dalla Federal Reserve prima dell’apertura delle contrattazioni a Wall Street, la mossa di Ben Bernanke è sembrata una resa alla marea montante dei catastrofisti che, da settimane, pronosticavano l’arrivo di una recessione per l’economia americana. Dall’esplosione del caos dei mutui subprime i segnali di affanno per l’economia statunitense si sono effettivamente moltiplicati, ma ancor di più si sono moltiplicate le voci di chi ha fatto della “parola con la R” (come la chiamano parecchi giornali americani in questi giorni) una parola d’ordine. Ieri mattina la Borsa di New York, che lunedì era rimasta chiusa per il Martin Luther King Day evitando di risentire del terremoto asiatico, ha segnato perdite importanti nelle prime ore di contrattazioni seguendo la scia dei mercati asiatici e di quelli europei, che hanno continuato a bruciare centinaia di miliardi di dollari. Sui giornali, e in particolare sui giornali liberal, la situazione è stata letta come il prologo di una tragedia: “La mossa della Fed è la dimostrazione che c’è preoccupazione per una possibile recessione”, era uno dei commenti pubblicati ieri sulla versione online del New York Times, sebbene il comunicato parlasse soltanto di “rischi per la crescita”. Eppure, nonostante una perdita di circa 460 punti dell’indice Dow Jones, i numeri per parlare di martedì nero non ci sono stati. Nel 1987 l’indice medio dei titoli industriali perse infatti 508 punti ma, come spiegava ieri l’analista finanziario Peter McKay sul Wall Street Journal, “avrebbero dovuto essere 2.700 per avere un crollo di Borsa equivalente a quello” di ventuno anni fa. A registrare le maggiori difficoltà sono stati gli istituti di credito. Ieri Bank of America e Wachovia hanno dichiarato perdite del 95 e del 98 per cento e Wall Street ha reagito deprezzando i loro titoli.
(segue dalla prima pagina) La situazione del sistema bancario americano è critica, e una recessione potrebbe non essere la peggiore delle prospettive. La crisi economica aprirebbe alle banche e alle società coinvolte nella crisi subprime la strada degli aiuti di stato e del protezionismo. Il pacchetto di “stimoli” all’economia caldeggiato dai democratici, approvato da Bush e benedetto da Bernanke è un prodromo di quel che potrebbe accadere se il sistema bancario così in affanno riuscisse ad affermare la sua agenda politica necessariamente (al momento) dirigista. Magari, a pochi mesi dalle elezioni, imponendo un presidente democratico. La grande stampa economico-finanziaria, che vive anche grazie alle ricche inserzioni pubblicitarie del sistema bancario statunitense, si è ben guardata dal non assecondare questa voglia di crisi e ha anzi sottolineato, interpellando spesso economisti bancari sulla prospettiva di una recessione. Con la parziale eccezione del WSJ e dell’agenzia Bloomberg, il risultato delle consultazioni è stato terribile. Ben prima che i mercati cominciassero a bruciare miliardi di dollari all’ora, sui giornali la sindrome del ’29 era già scoppiata. Le previsioni dello stesso Bernanke – che appena una settimana fa diceva che “nel 2008 non si prevede una recessione”, come ha ribadito ieri ancora la Casa Bianca: “E’ soltanto una frenata” – non venivano prese sul serio, contrariamente a quelle dell’ultimo dei junior analist di Citigroup o di Merrill Lynch. Un sondaggio condotto da Bloomberg lo scorso 9 gennaio tra 62 economisti (per lo più accademici) che smentivano l’ipotesi di una recessione è rimasto confinato al notiziario dell’agenzia del sindaco di New York. Eppure i dati dicono che l’economia americana continuerà a segnare una crescita, sia pure modesta, nel 2008. Si parla di un 1,5 per cento che è poca cosa per gli standard degli Stati Uniti, ma che è poco meno della media attuale europea. Con l’Iraq fuori dal dibattito perché il “surge” funziona, l’economia si è trasformata nel tema centrale della campagna elettorale. Bernanke, abbassando i tassi, ha cercato di sottrarla ai politici per non ripetere il 1992, quando l’inazione di Alan Greenspan portò Bush senior a perdere la Casa Bianca.
Alan Patarga

(© Il Foglio, 23 gennaio 2008)

Dietro al panico

Washington. Ieri i mercati americani erano chiusi per il Martin Luther King Day. Sono state Asia ed Europa a sentire l’onda d’urto del panico di Borsa. Dall’inizio dell’anno il Nasdaq, listino tecnologico di New York, ha perduto il 10,3 per cento, il listino industriale Dow Jones l’8,8, e sulla scia americana il Nikkei di Tokyo ha perduto il 13 per cento (solo ieri quasi il 4), il Dax di Francoforte il 15,8, e lo S&P Mib di Milano il 12 per cento. La crisi della finanza investirà l’economia reale? E’ tempo davvero di recessione? Mild, o deep, come paventava ieri il Wall Street Journal? “Non prevediamo una recessione”, aveva detto Ben Bernanke la scorsa settimana, benedicendo lo stimolo fiscale di George W. Bush. Ora che gli assegni con il “tax rebate” sono quasi pronti per essere imbustati e spediti ai contribuenti americani (si parla di 800 dollari una tantum per i single e di 1.600 per le famiglie, un provvedimento simile a quello adottato per superare le crisi del 2001) e che i mercati non hanno reagito positivamente alle novità, i giornali e gli economisti che da mesi parlano del pericolo di una recessione per l’economia americana sono entrati nella fase del panico. “The Panic Stage” era il titolo di un’analisi pubblicata ieri sempre sul Wall Street Journal. E non erano ancora arrivate le notizie dall’Asia e dall’Europa. “Quello attuale non è un bello spettacolo, ma il peggio è tutt’altro che inevitabile: basta che i leader politici e quelli economici non si perdano d’animo e si concentrino sui rimedi”.
(segue dalla prima pagina) L’analisi non firmata (riconducibile pertanto alla linea ufficiale del WSJ) prosegue rivendicando “un decennio di crescita reale” dopo la crisi post 11 settembre, e traccia gli scenari futuri: “Ci sono due modi per arrivare al punto di rottura. Uno è l’insolvenza di uno o più soggetti in un mercato, e da questo punto di vista ci sono stati progressi. L’altro è la perdita di fiducia nelle capacità di saper gestire il sistema finanziario statunitense e il dollaro. Per questo, ci auguriamo che la Fed non abbia sperperato in questi anni la sua credibilità. In realtà, a giudicare dagli indicatori economici, più che una contrazione sembra un rallentamento della crescita. Tutto sta a evitare che il panico di oggi si trasformi in qualcosa di peggio domani”. Già, perché le crisi economiche sono determinate da comportamenti di gruppo, dalla psicologia dei mercati.
Il WSJ di ieri dedicava un altro articolo, l’apertura del giornale, alla possibilità di una recessione americana, che nessuno degli economisti interpellati si è sentito di escludere a priori. Secondo David Rosenberg, economista di Merrill Lynch, la crisi somiglia più a quella del 1991 che all’esplosione della bolla di Internet. Per Carmen Reinhart dell’Università del Maryland e Kenneth Rogoff di Harvard “la crisi attuale potrebbe diventare grave almeno quanto una delle cinque peggiori crisi finanziarie che hanno colpito i paesi industrializzati dopo la Seconda guerra mondiale”. C’è chi evoca lo spettro di una recessione simile a quella che colpì il Giappone negli anni Novanta, quando ci vollero molti anni per quantificare le perdite. Uno dei problemi che preoccupano il mercato è che più a lungo regna l’incertezza sulle perdite più tarda a tornare l’ottimismo degli operatori. Lo stimolo bushiano non sembra aver fugato le incertezze, e il piano presidenziale dovrà affrontare un difficile negoziato parlamentare che non sarà esente – faceva notare l’Economist di questa settimana – dagli interessi politici di parte e dal clima elettorale. Così John Auster del Financial Times annunciava pochi giorni fa che “la recessione è già cominciata” e giustificava la sua affermazione con un forte ribasso nell’indice delle previsioni della Fed sulle condizioni generali degli affari in Usa. Gli faceva eco ieri – sempre sul FT – l’economista giapponese di Credit Suisse, Kyoya Okazawa: “Non si sa come andrà a finire: questo è il potere della paura che spinge verso il basso il mercato equity”.
C’è pure chi è moderatamente ottimista, chi crede che i mercati stiano operando una correzione ancorché dolorosa o chi per sconfiggere la recessione invoca soluzioni keynesiane o confida nella forza dell’economia reale, a partire dalle esportazioni (avvantaggiate in questa fase dal dollaro basso) che valgono comunque il doppio del settore edilizio residenziale nel paniere del pil americano.

(© Il Foglio, 22 gennaio 2008)