mercoledì 9 dicembre 2009

Non capirci un'acca

Ma perché tutti i giornali italiani scrivono Copenaghen anziché Copenhagen? E sì che basterebbe guardare il logo.

B-XVI, maestro di giornalismo


Assuefatti al male, fino al punto di approfittarne. Non si poteva spiegare meglio di così.

martedì 1 dicembre 2009

Propositi per il mese


In ordine cronologico.

1) Finire "Un cappello pieno di ciliege" della Fallaci (finora bellissimo).

2) Approfondire la conoscenza della discografia di Monsieur Aznavour.

3) Leggere "La scoperta di Milano" di Guareschi.

4) Andare a Vienna con Elisa.

5) Passare il Natale in famiglia.

6) Farsi regalare "La marcia di Radetzky" di Roth (Joseph), il Mangiarozzo 2010, un pigiama e un televisore ad almeno 32 pollici (meglio 37).

7) Traslocare in una casa edificata prima del 1899 e sopra il Po.

La solitudine dei figli lontani


Quello che puoi vedere è che tutto questo ha sempre meno valore in una Società divisa, rissosa, fortemente individualista, pronta a svendere i minimi valori di solidarietà e di onestà, in cambio di un riconoscimento degli interessi personali, di prebende discutibili; di carriere feroci fatte su meriti inesistenti. A meno che non sia un merito l'affiliazione, politica, di clan, familistica: poco fa la differenza.
Questo è un Paese in cui, se ti va bene, comincerai guadagnando un decimo di un portaborse qualunque; un centesimo di una velina o di un tronista; forse poco più di un millesimo di un grande manager che ha all'attivo disavventure e fallimenti che non pagherà mai.
(Pier Luigi Celli, lettera al figlio pubblicata da Repubblica)


Tutto più o meno giusto. E comprensibile l'invito a scappare all'estero. Inutile la retorica (spesso onesta) di chi dice: resto per non darla vinta. Le cose - poche storie - stanno quasi sempre così, e le eccezioni (di cui m'illudo di far parte) si contano sulla punta delle dita di una mano.
Però, in questa lettera, manca qualcosa: una cosa importante. E' il motivo per il quale, qualche anno fa, ho deciso di rimettere in discussione tutta la mia vita e le certezze conquistate (una carriera all'estero e uno stipendio doppio di quello che prendevo prima in Italia) e tornare: perché all'estero puoi trovare un buon lavoro, farti qualche amico e magari incontrare pure l'amore, ma la verità è che un uomo, senza le sue radici, è sempre solo.

lunedì 30 novembre 2009

Bandiere/2. La Croce sulla bandiera c'era già


Sarebbe bastato lasciarcela.

da Corriere.it - I leghisti esultano per la vittoria referendaria della destra elvetica. E, per bocca di Roberto Castelli, lanciano una nuova proposta. «Occorre un segnale forte per battere l'ideologia massonica e filoislamica che purtroppo attraversa anche le forze alleate della Lega» dice l'esponente del Carroccio. «Credo che la Lega Nord - prosegue - possa e debba nel prossimo disegno di legge di riforma costituzionale chiedere l'inserimento della croce nella bandiera italiana».

venerdì 27 novembre 2009

Bandiere/1. Chi glielo dice alla Cgil?


da Corriere.it - I politici polacchi hanno presentato un breve emendamento che mette al bando qualsiasi simbolo comunista dal paese dell'Est europeo. Il Senato ha infatti approvato una modifica all'articolo 256 del codice penale che dichiara illegali tutti i simboli comunisti. Chiunque li utilizza o ne è in possesso rischia fino a due anni di carcere per aver commesso il reato di «glorificazione del comunismo». Il Presidente della Repubblica Leck Kaczynski lunedì prossimo dovrebbe firmare la legge che probabilmente entrerà in vigore dal prossimo anno. A questo punto anche indossare t-shirt con l'immagine di Che Guevara o solamente canticchiare l'Internazionale nelle strade di Varsavia sarà considerato un crimine in Polonia. La nuova legge infatti proibisce espressamente tutte le immagini che inneggiano a sistemi antidemocratici: l'articolo afferma che è vietata «la produzione, la distribuzione, la vendita o il solo possesso di oggetti che richiamano al fascismo, al comunismo o ad altri simboli di totalitarismi». Uno dei principali promotori della norma è Jaroslaw Kaczynski, fratello gemello del Presidente della Repubblica e capo del partito di opposizione «Legge e Giustizia».

Deriva moralista


Prima Casoria, poi le escort, quindi i trans e ora persino la liaison neofascista. Possibile che l'Italia sia un paese tanto bigotto da dover valutare la sua classe politica solo ed esclusivamente in base alla sua vita e attitudine sessuale? Possibile che sia politicamente rilevante quasi solo quel che è penalmente irrilevante? O non sarà che a essere così bacchettone sia soltanto il circo mediatico-parlamentare, e il paese in realtà se ne frega?

La croce dei trans e l'Italia senza Croce


A non aver paura di farsi dare dei conservatori, ci sarebbe da chiedersi che paese sia quel paese che esclude il sacro, la storia e il valore della vita dal discorso pubblico – se non per esecrare tutte queste cose – e al tempo stesso eleva a paradigma della modernità il cambiamento di sesso e le pulsioni (d’erotismo, ma soprattutto d’egoismo) che circondano tale passaggio di genere.
Chiunque abbia acceso la tv anche per pochi minuti, negli ultimi giorni, se ne sarà reso conto: non si parla che di trans. Uomini diventati donne, imbottite di litri (sì, litri) di silicone, donne che sono o stanno diventando uomini: il trans va di moda (e porta ascolti) un po’ a tutti. A Porta a Porta, Annozero e Matrix se ne discute come di un fenomeno politico (e c’è quasi da rimpiangere Vladimir Luxuria), dopo aver discettato per mesi di prostitute. E lo stesso, con toni differenti, si fa a La vita in diretta, a Pomeriggio Cinque, fino alle Iene e al Grande fratello. C’è chi spiega quanto costi un rapporto mercenario con un uomo-donna, chi quanto sia caro operarsi, chi “quanto è difficile spiegare ai figli che ora sono una donna e al tempo stesso il loro papà”. E tutto questo a tutte le ore del giorno, non soltanto in fascia protetta. Perché, il ragionamento sottinteso non può che essere questo, “tanto con Internet è inutile nascondere qualsiasi cosa ai figli”. Sarà, però in questo stesso paese che non si premura di nascondere nulla ai bambini, dal sesso alla violenza più estremi e deviati, ci si premura di nasconder loro quel che un tempo era il primo insegnamento.
Prima di leggere, di scrivere e di far di conto, una volta s’insegnava ai figli a raccomandarsi l’anima al Signore. Niente di impegnativo, poche preghiere da mandare a memoria, una sorta di appuntamento anticipato (e per forza di cose compreso solo in parte) con il mistero del sacro. Adesso una sentenza della Corte europea di giustizia – che fortunatamente non è stata accolta con i soliti alleluia di parte – dice che ai piccoli italiani debba essere impedita la visione del Crocifisso nelle scuole. Una “violenza” (letterale) alla libertà religiosa loro e dei loro genitori, secondo i giudici comunitari, che uno Stato laico non potrebbe perpetrare. Sono più o meno le stesse motivazioni che, negli ultimi anni, hanno spinto ad abdicare a tutto un insieme di tradizioni – religiose, in senso stretto, ma culturali in senso assai più ampio – nel nostro paese. Una, apparentemente minore, è quella del presepe nelle scuole. Ma, in questi casi, si comincia sempre con il bersaglio piccolo per colpire in un secondo momento quello principale. L’Italia senza Croce può essere lo stesso paese che è l’Italia con la Croce? La risposta, anche per il più infervorato degli atei, non può che essere negativa. Senza la Croce, il nostro è un paese depauperato di buona parte della sua storia sociale e architettonica, un paese incomprensibile per un visitatore. O per chi, come i bambini, arriva soltanto ora ad abitarvi.
Eppure, la stessa Europa che non vuole far vedere il Crocifisso ai bimbi non dice nulla riguardo il martellamento di sesso-senza-amore cui i figli degli italiani sono ormai sottoposti ora dopo ora. Ma lì il discorso è diverso. Si capisce da come rispondeva a una domanda, qualche giorno fa, un uomo diventato donna ma rimasto padre di due figli: “Io mi sentivo donna, loro hanno capito anche se sono ancora minorenni”. Avranno capito davvero? Difficile crederlo. Difficile, però, è soprattutto pensare che una persona che ha degli obblighi derivanti dall’amore verso altre persone (i figli) debba far affrontare loro una situazione psicologicamente pesantissima (e dall’esito tutt’altro che scontato) per puro egoismo. In un paese senza Croce, che è pur sempre il simbolo del più alto gesto d’altruismo della storia umana, è evidente che la norma debba essere questa. E’ evidente che, per egoismo, si debba poter cambiare sesso, far soffrire i figli o magari non farli nascere proprio. E chi chiede d’esporre un simbolo d’amore, chi ricorda la propria storia, chi dice no all’aborto – in un paese così – è un bieco conservatore. E allora sarò pure retrivo, ma lasciatemi dire che una Croce in classe non ha mai fatto male a nessuno, che quest’anno farò un presepe doppio e che una donna infelice è sempre meglio di un bambino morto.
Alan Patarga

(da La Cronaca di Piacenza, La Voce di Mantova e La Voce di Romagna)

Perché è una crisi da gattopardi


In questi giorni è caduto il primo anniversario del crac di Lehman Brothers, la banca d’investimenti americana il cui fallimento – solo in apparenza improvviso – ha convinto tutti, anche i più scettici, dell’esistenza di una grande crisi economica. Già prima di allora, nei mesi dell’affaire Bear Stearns e poi nell’estate del 2008, s’era discusso parecchio del sopravvenire di una fase difficile per l’economia globale. Qualcuno, anche tra i più avveduti, cominciò a parlare di “un nuovo ’29”, ossia d’una crisi paragonabile soltanto – per intensità e danni collaterali – a quella che portò alla Grande Depressione. Chi parlava, a ragione, di paure e di speranze, non resistette al parallelo immaginifico con l’America cupa di Hoover e a una ricetta vecchia più di Roosevelt per uscirne: il ricorso allo Stato, ossia alla finanza pubblica, per raddrizzare le “storture” del mercato. Un mercato – dicevano – impazzito a causa del proliferare di nuovi e incontrollabili strumenti finanziari, i derivati su mutui e altri contratti di debito, che presto sarebbero diventati carta straccia, riducendo al medesimo stato buona parte della finanza e dell’economia reale.
Così, all’appropinquarsi della crisi, la soluzione più ovvia (e più saggia) è parsa a tutti, o quasi, il ricorso al denaro pubblico: per evitare la chiusura di banche, compagnie assicurative e imprese (in primis, le case automobilistiche statunitensi) “troppo grandi per fallire” si sono spesi migliaia di miliardi in tutto il mondo. In America, soprattutto, ma non soltanto. L’euforia neostatalista ha preso un po’ tutti, e l’aver salvato (a carissimo prezzo) centinaia di istituzioni finanziarie, è sembrato a molti il risultato indispensabile perché si arrivasse a un punto di svolta. Si dice ora che i “segnali di ripresa” ci sono, e che sono sempre più numerosi. E’ vero, come è vero che essi provengono dalle imprese e dal mondo del lavoro, e non dalla finanza. E anzi sono stati parecchi, in questi mesi, i segnali di stasi – a dispetto delle iniezioni di capitale pubblico, cioè di proventi delle tasse di tutti i cittadini – provenienti dall’industria del credito. Molte banche, soprattutto i grandi istituti con grandi strategie globali e scarsa attitudine locale, hanno incassato, ringraziato, e poi hanno cercato di limitare al minimo sindacale la concessione di nuovi prestiti (o la rinegoziazione di quelli vecchi). Diverso il discorso, almeno in Italia, per tante banche popolari o del credito cooperativo che – al contrario – non si sono tirate indietro nel momento del bisogno. E però è la tendenza complessiva a contare, non le eccezioni, per quanto lodevoli.
Un anno dopo il grande choc di Lehman Brothers e degli scatoloni portati via in fretta e furia dai suoi dipendenti ormai senza lavoro, sono almeno due le lezioni che si possono trarre da tutta questa vicenda. La prima – lampante, perché sono i numeri dell’economia reale a dirlo – è che non c’è stato nessun ’29. Le difficoltà, quelle sì, non sono mancate. E sono state difficoltà capaci di costare la serenità e il benessere di tante famiglie in tanti paesi. Ma il tracollo globale, la depressione endemica, la tabula rasa del modello economico capitalistico sono tutte cose che, pur annunciate e quasi vaticinate, non si sono poi verificate.
L’altra lezione, è che s’è trattato d’una crisi da gattopardi. Come nel romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, s’è cercato di cambiare tutto (a parole), perché tutto restasse com’era. L’assetto della finanza americana, con qualche inevitabile fusione e qualche testa caduta qua e là, è grossomodo lo stesso di dodici mesi fa. I mutamenti, se ce ne sono stati, in Europa sono stati se possibile ancor più impercettibili. Lo stesso presidente americano, Barack Obama, ha sottolineato qualche giorno fa che troppe cose sono rimaste le stesse d’un tempo. Non ha spiegato perché, e un po’ va capito. Sarebbe stato difficile ammettere che ciò è stato possibile proprio grazie all’intervento (da lui praticato e caldeggiato) degli Stati nelle economie. Sia prima, sia dopo la crisi. In un saggio sulla Grande Depressione, l’economista libertario Murray Rothbard spiegava bene che una crisi altro non è che “un’esplosione di errori” degli attori dell’economia. Un risultato raggiungibile ad una sola condizione: che qualcuno induca a sbagliare, tutti insieme, imprenditori e consumatori. Il modo migliore per limitarne la libertà e indurli all’errore è immettere moneta (con prestiti facili) sul mercato: i “soldi facili” dirotteranno le loro scelte di investimento. Esattamente quel che è accaduto negli anni di Alan Greenspan alla Federal Reserve. Insomma, la causa della crisi è lo Stato che crea artificialmente un’espansione (una bolla) che prima o poi si sgonfia. Il vaccino a tutto questo, un anno fa, era a portata di mano: lasciar fallire chi, esplosa la bolla, non aveva più i numeri per stare sul mercato. Lasciare, cioè, che l’economia americana (e, di conseguenza, quella globale) si ridisegnasse autonomamente, ripulendosi delle scorie dell’ingordigia creata ad arte dalla Fed. Foraggiarla con aiuti pubblici non poteva che portare alla conseguenza opposta: lasciare tutto com’era, salvo un po’ di maquillage. E tutti pronti a credere anche alla prossima bolla.
Alan Patarga

(da La Cronaca di Piacenza, La Voce di Mantova e La Voce di Romagna)

sabato 15 agosto 2009

La religione dell'ignoranza

Altro che laicità dello Stato. La sentenza del Tar del Lazio sull’esclusione dell’ora di religione dal computo delle attività che concorrono a distribuire “crediti” e “debiti” formativi agli studenti italiani in vista dell’esame di maturità con la questione della laicità non c’entra affatto. Quasi che si trattasse di ore di catechismo, e non di insegnamento della religione cattolica a fini culturali (tanto che spesso e volentieri tale insegnamento è accompagnato, quando i professori hanno ancora un po’ di voglia di fare, da studi comparativi con le altri fedi e il pensiero filosofico), le associazioni laiche a atee hanno subito esultato dinanzi alla decisione del giudice amministrativo di Roma. In realtà, la questione è un po’ più complessa e bene ha fatto il ministro Gelmini a ricordarlo, annunciando il ricorso del ministero della Pubblica amministrazione al Consiglio di Stato.
L’insegnamento della religione cattolica, in Italia, è stato introdotto da un trattato internazionale con un altro paese, lo Stato della Città del Vaticano. Nella prima stesura dei Patti lateranensi del 1929 e in quella rivista del 1984. E, a meno che a quel patto non si voglia venir meno, quello di insegnare la religione ai ragazzi italiani in età scolare è un impegno internazionale che, come tutti gli altri, andrebbe onorato dalla Repubblica italiana. Pacta sunt servanda, dicevano i latini: in parole povere, vuol dire che bisogna stare ai patti se si vuole essere considerati persone perbene. Fin qui la forma. E la sostanza? La sostanza è che la conoscenza della storia, dei dogmi e delle figure del Cristianesimo – e in particolar modo del cattolicesimo – è una conoscenza essenziale per il bagaglio culturale di qualsiasi italiano, che sia credente oppure no. La fede, infatti, c’entra poco o nulla: non stiamo parlando di quella che un tempo si chiamava Dottrina, ma dello studio della religione che ha influito in maniera determinante sullo sviluppo storico, culturale, artistico e politico dell’Italia e dell’Europa negli ultimi due millenni.
Forse un esempio concreto è la cosa migliore, in questi casi. Poniamo che un ragazzo sia cresciuto in una famiglia rigorosamente atea e che non sappia nulla della tradizione cristiana del nostro paese. Poniamo anche che decida di non avvalersi dell’insegnamento della religione a scuola (scelta legittima, e però non sarebbe male che chi rinuncia a quell’ora la impieghi per studiare, anziché per uscire da scuola). Avrà gli strumenti culturali – culturali, si badi, non religiosi – per spiegare a un turista giapponese il significato della Pietà di Michelangelo o dell’affresco che illustra il Giudizio universale nella Cappella Sistina? La risposta, inequivocabile, è no.
Il punto è proprio questo: se l’ora di religione a scuola non serve per indottrinare, ma per aumentare il bagaglio culturale degli studenti italiani (e a questo serve, come è scritto anche nel Concordato), allora perché non valutare positivamente – dando un “credito”, cioè un bonus che può alzare il voto finale – a quegli studenti che, magari anche non credendo a nulla di quel che dicono il Vangelo e la Chiesa, hanno però avuto la curiosità intellettuale di studiare il Cristianesimo? Perché non premiare loro e dare crediti su crediti – come previsto dalla nuova maturità – a chi frequenta corsi di teatro al pomeriggio, laboratori musicali o tira quattro calci al solito pallone?
Alan Patarga

(da La Cronaca di Piacenza e La Voce di Mantova)

lunedì 15 giugno 2009

Antica osteria "Dal turchestano"


Londra, 15 giu. - (Adnkronos) - I quattro detenuti di Guantanamo
di etnia uigura trasferiti nei giorni scorsi nelle isole Bermude
sognano adesso di aprire un ristorante nel paradiso dei miliardari.
Rinchiusi per sette anni nel campo di detenzione americano a Cuba con
l'accusa di essere terroristi, ora liberi tra le meraviglie
dell'isola, i quattro amici originari della provincia cinese dello
Xinjiang a maggioranza musulmana sono ancora increduli: "Non avremmo
mai immaginato di essere un giorno cosi' felici", ha dichiarato al
"Times" Abdullah Abdulqadir, 30 anni.

I quattro, accusati di appartenere al movimento separatista del
Turkestan orientale, avevano trovato rifugio in Afghanistan dopo le
persecuzioni della "dittatura comunista", trasferendosi in un
villaggio nei pressi di Jalalabad. Dopo l'inzio della guerra americana
contro i Talebani, erano fuggiti nelle regioni tribali pachistane,
dove erano stati arrestati con l'accusa di essere affiliati di al
Qaeda. "Ma di al Qaeda abbiamo sentito parlare per la prima volta a
Guantanamo", sostengono.

giovedì 14 maggio 2009

Per una volta, un po' di autopromozione


TV: A 'TERRA!' (GIOVEDì 14 MAGGIO, ORE 23,40 SU CANALE 5) RIFLETTORI PUNTATI SULLA FIAT

Roma - (Adnkronos) - "Fiat luce" è il titolo del nuovo appuntamento di "Terra!", il settimanale del Tg5 a cura di Toni Capuozzo e Sandro Provvisionato, in onda su Canale 5 in seconda serata. Provvisionato condurrà, dai cancelli dello storico stabilimento torinese di Miafiori, una puntata interamente dedicata alla Fiat, in relazione alle recenti manovre economiche dell'azienda di Torino volte all'acquisizione dell'americana Chrysler e della tedesca Opel. Apre la puntata un lungo reportage di Alan Patarga che, da Windsor (Canada), farà il punto sulle aspettative legate ai vicini stabilimenti automobilistici di Detroit. Lì, infatti, verranno prodotti i primi veicoli nati dal sodalizio di Fiat e Chrysler.

Giuseppe De Filippi traccerà un approfondito ritratto di Sergio Marchionne, ad del gruppo Fiat e principale artefice delle recenti fusioni intercontinentali dell'azienda italiana. Marco Corrias, a Russelsheim, sede del più grande stabilimento Opel, raccoglierà i pareri dei lavoratori tedeschi sul tentativo dell'impresa della famiglia Agnelli di acquisire gli assets del colosso tedesco dell'auto. Provvisionato intervisterà, invece, un delegato del gruppo sindacale Fiom, che esporrà le aspettative e le preoccupazioni dei lavoratori italiani in merito alle ultime manovre economiche del Lingotto.

Claudio Della Seta spiegherà, infine, quali modelli saranno
prodotti e in quali stabilimenti, qualora l'alleanza tra le tre case automobilistiche diventasse realtà. A concludere, Capuozzo
incontrerà l'esploratore Michele Pontrandolfo, ritornato in patria
dopo aver raggiunto a piedi, primo tra gli italiani, il Polo Nord
magnetico.

(Toa/Zn/Adnkronos)
13-MAG-09 14:01

martedì 12 maggio 2009

Un uomo solo al commando


(ANSA) - BARI, 12 MAG - "Abbiamo notizie che i due presunti terroristi di Al Qaida siano rinchiusi al terzo piano della famigerata seconda sezione ove sono rinchiusi altri 90 detenuti vigilati da un solo agente". Lo denuncia il segretario regionale pugliese del Sappe (Sindacato autonomo polizia penitenziaria), Federico Pilagatti, in una nota nella quale ricorda i numerosi cantieri tuttora aperti nel carcere di Bari e i "grossi problemi di sicurezza", peraltro con un muro di cinta "da più di un anno completamente sguarnito".
"Il Sappe - aggiunge - ritiene che solo la professionalità, il sacrificio, la serietà e la correttezza dei poliziotti penitenziari baresi hanno finora evitato situazioni pericolose, ma fino a quando si riuscirà a far fronte alle esigenze, dovute soprattutto alla carenza del personale?". "E' necessario - conclude Pilagatti - sottoporre i presunti terroristi ad un controllo più adeguato, alla chiusura della II sezione, ad innalzare il livello di sorveglianza dell'istituto presidiando il muro di cinta, eppoi sfollando il carcere di detenuti in maniera corposa al fine di ristabilire le minime condizioni igienico-sanitarie e di sicurezza". (ANSA).

DES
12-MAG-09 19:21

domenica 3 maggio 2009

A proposito dei due editori

"Lavare i panni in famiglia talora è meglio che consegnarli alla lavatrice di Curzio Maltese".
(Andrea Marcenaro, Il Foglio, 2 maggio 2009)

sabato 28 marzo 2009

Fini l'anti Cav., Alemanno il dopo Cav.

Una bella differenza tra il discorso di Gianfranco Fini e quello di Gianni Alemanno, al congresso di fondazione del Pdl: i distinguo del presidente della Camera suonano più contro Berlusconi che altro. Le parole d'ordine del sindaco di Roma, al contrario, sembrano tanto il programma per il dopo: famiglia, valori etici, gollismo. Due strategie opposte per puntare allo stesso obiettivo di lungo periodo?