sabato 15 agosto 2009

La religione dell'ignoranza

Altro che laicità dello Stato. La sentenza del Tar del Lazio sull’esclusione dell’ora di religione dal computo delle attività che concorrono a distribuire “crediti” e “debiti” formativi agli studenti italiani in vista dell’esame di maturità con la questione della laicità non c’entra affatto. Quasi che si trattasse di ore di catechismo, e non di insegnamento della religione cattolica a fini culturali (tanto che spesso e volentieri tale insegnamento è accompagnato, quando i professori hanno ancora un po’ di voglia di fare, da studi comparativi con le altri fedi e il pensiero filosofico), le associazioni laiche a atee hanno subito esultato dinanzi alla decisione del giudice amministrativo di Roma. In realtà, la questione è un po’ più complessa e bene ha fatto il ministro Gelmini a ricordarlo, annunciando il ricorso del ministero della Pubblica amministrazione al Consiglio di Stato.
L’insegnamento della religione cattolica, in Italia, è stato introdotto da un trattato internazionale con un altro paese, lo Stato della Città del Vaticano. Nella prima stesura dei Patti lateranensi del 1929 e in quella rivista del 1984. E, a meno che a quel patto non si voglia venir meno, quello di insegnare la religione ai ragazzi italiani in età scolare è un impegno internazionale che, come tutti gli altri, andrebbe onorato dalla Repubblica italiana. Pacta sunt servanda, dicevano i latini: in parole povere, vuol dire che bisogna stare ai patti se si vuole essere considerati persone perbene. Fin qui la forma. E la sostanza? La sostanza è che la conoscenza della storia, dei dogmi e delle figure del Cristianesimo – e in particolar modo del cattolicesimo – è una conoscenza essenziale per il bagaglio culturale di qualsiasi italiano, che sia credente oppure no. La fede, infatti, c’entra poco o nulla: non stiamo parlando di quella che un tempo si chiamava Dottrina, ma dello studio della religione che ha influito in maniera determinante sullo sviluppo storico, culturale, artistico e politico dell’Italia e dell’Europa negli ultimi due millenni.
Forse un esempio concreto è la cosa migliore, in questi casi. Poniamo che un ragazzo sia cresciuto in una famiglia rigorosamente atea e che non sappia nulla della tradizione cristiana del nostro paese. Poniamo anche che decida di non avvalersi dell’insegnamento della religione a scuola (scelta legittima, e però non sarebbe male che chi rinuncia a quell’ora la impieghi per studiare, anziché per uscire da scuola). Avrà gli strumenti culturali – culturali, si badi, non religiosi – per spiegare a un turista giapponese il significato della Pietà di Michelangelo o dell’affresco che illustra il Giudizio universale nella Cappella Sistina? La risposta, inequivocabile, è no.
Il punto è proprio questo: se l’ora di religione a scuola non serve per indottrinare, ma per aumentare il bagaglio culturale degli studenti italiani (e a questo serve, come è scritto anche nel Concordato), allora perché non valutare positivamente – dando un “credito”, cioè un bonus che può alzare il voto finale – a quegli studenti che, magari anche non credendo a nulla di quel che dicono il Vangelo e la Chiesa, hanno però avuto la curiosità intellettuale di studiare il Cristianesimo? Perché non premiare loro e dare crediti su crediti – come previsto dalla nuova maturità – a chi frequenta corsi di teatro al pomeriggio, laboratori musicali o tira quattro calci al solito pallone?
Alan Patarga

(da La Cronaca di Piacenza e La Voce di Mantova)