venerdì 29 agosto 2008

Una veep coraggiosa che piace ai pro life


Sarah Palin ("the most popular governor", copyright The Weekly Standard), 44enne governatore in carica dell'Alaska e neocandidata repubblicana alla vicepresidenza, che per anni i media hanno definito "hottie" perché piuttosto avvenente, da tempo era indicata da molti come una possibile prima scelta di John McCain per il ruolo di numero due alla Casa Bianca. Quattro mesi fa i giornali hanno però parlato di lei per un'altra ragione: la sua gravidanza. A fine aprile, infatti, la Palin ha dato alla luce Trig Paxson, un bel bebè con la sindrome di Down. E lo ha fatto nonostante le pressioni pubbliche ripetute nei mesi precedenti affinché non portasse a termine la gestazione. "Ringraziamo il Signore per averci dato la sua fiducia e questo dono", è stato il commento di lei e del marito in un comunicato ufficiale diffuso subito dopo il parto. Con lei nel ticket il voto della destra religiosa è garantito (e quello femminile torna molto in discussione, magari anche grazie a chi voleva Hillary alla Casa Bianca "perché donna"), assai più che da un Romney qualunque, mentre allo sfondamento al centro penserà il maverick McCain.

domenica 24 agosto 2008

Barack Obama sceglie come vice Joe Biden, l'alter ego di McCain


Washington. Barack Obama aveva promesso un cambiamento radicale per l’annuncio del candidato democratico alla vicepresidenza e in parte è stato di parola. Venerdì notte ha mandato un sms a Joe Biden e un’e-mail ai suoi sostenitori per comunicare all’uno e agli altri la scelta del suo running mate. Le novità, però, sono finite qui. Joe Biden tra i papabili c’era da tempo (gli altri erano i senatori Evan Bayh e Jack Reed e il governatore della Virginia, Tim Kaine) e il suo, a Washington, è tutto fuorché un nome nuovo. Senatore del Delaware dal 1972, al suo confronto persino il settantaduenne McCain è un neofita: la sua prima elezione al Congresso risale a dieci anni più tardi. Biden è, per molti versi, l’esatto contrario del senatore nero dell’Illinois: tanto l’uno si è presentato finora come l’uomo del cambiamento, quanto lui ha fatto dell’esperienza il suo più importante asset politico. E non da oggi. Era il 1988 quando il comitato elettorale di Joseph Robinette Biden jr., allora in corsa alle primarie per la nomination democratica, fece mandare in onda uno spot in cui si spiegava che “la Casa Bianca non è il posto in cui imparare come risolvere una crisi internazionale”. Un messaggio che oggi sarebbe perfetto per la campagna McCain. Finì male: il senatore del Delaware pronunciò un discorso copiandolo dall’allora leader dei laburisti britannici, Neil Kinnock, e al suo posto i democratici scelsero Michael Dukakis. Esperienza a parte, le differenze tra lui e Obama non potrebbero essere più marcate: Biden, nel 2002 votò a favore dell’invasione dell’Iraq e in seguito le sue critiche all’Amministrazione Bush – che non sono mancate – sono state rivolte a chi, al Pentagono, aveva sottostimato le necessità di uomini e mezzi per poter affrontare adeguatamente il dopoguerra iracheno. “Per due anni sono stato il solo, con John McCain, a chiedere l’invio di altre truppe”, dichiarò in un’intervista del novembre 2005. Un anno e mezzo prima, nel maggio del 2004, quando ormai la nomination democratica di John Kerry non era già più in discussione, Biden invitò il senatore del Massachusetts a scegliersi, come vice, “un repubblicano per ridare unità a un paese straziato da Bush: l’unico che sceglierei sarebbe John McCain”.
(segue dalla prima pagina) Nonostante le apparenze, Joe Biden non è ossessionato dal suo prossimo rivale politico, anzi. I due si stimano e lo stesso senatore democratico, tre anni fa, spiegò al comico Jon Stewart, in un talk show, che per lui sarebbe stato “un onore essere candidato con o contro” il suo amico di destra. Da quando la sua nomina è stata annunciata, i media e gli analisti hanno però cominciato a rinfacciargli – con maggiore o minore indulgenza – il suo lungo curriculum di gaffe e dichiarazioni poco felici che hanno caratterizzato l’intera sua carriera politica. E mentre non mancano le dichiarazioni d’affetto per John McCain, un po’ tutti hanno faticato a trovarne per Barack Obama: la cosa migliore che Biden ha detto di lui la disse il giorno in cui annunciò che gli si sarebbe candidato contro (con scarso successo) alle primarie. “E’ il primo afroamericano che parli e si presenti bene che ricordi”, la dichiarazione che in pratica lo condannò ad abbandonare la corsa prima ancora di averla iniziata. Se per Chris Cillizza del Washington Post e altri analisti politici americani la scelta di Biden “è più rischiosa che altro”, per David Brooks del New York Times invece il suo nome – associato a quello del giovane e affascinante, ma inesperto Obama – potrebbe essere quello giusto. Secondo Brooks “è vero che Biden ha detto un sacco di idiozie nel corso degli anni, ma è pur vero che certe sue uscite sono il segnale della sua genuinità”. Una qualità importante, insieme alla “capacità di parlare alla working class, all’onestà e all’esperienza”. Di quest’ultima Biden non difetta: in politica estera (è presidente di commissione al Senato) è forse il più esperto parlamentare democratico e il fatto che il presidente georgiano Saakashvili l’abbia invitato – pochi giorni fa – a visitare Tbilisi ne è una conferma. In Campidoglio il senatore del Delaware è poi considerato da tutti come un politico onesto che da trentasei anni fa tutti i giorni il pendolare tra Washington e la sua casa di Wilmington, la sua storia personale (la perdita della moglie e di una figlia a 29 anni, appena eletto al Senato), la sua fede cattolica e persino il fatto di avere un figlio che il prossimo ottobre partirà per l’Iraq con la Guardia nazionale sono tutti elementi che farebbero della sua scelta una buona scelta per Obama. Al momento i sondaggi dicono che non è così, e che il nome Biden associato a quello del senatore nero non sposta un voto né in entrata né in uscita, come forse avrebbe fatto la nomina di un ex governatore di uno stato in bilico. Nel 1974 Time inserì il suo tra “i duecento volti che cambieranno l’America”. Trentaquattro anni dopo, è arrivato il momento di dimostrarlo.
Alan Patarga

(© Il Foglio, 24 agosto 2008)

sabato 23 agosto 2008

venerdì 22 agosto 2008

Non c'è gap per il Gop

Non c'è soltato il sorpasso nei sondaggi (l'ultimo dà addirittura a sorpresa McCain con un vantaggio di cinque punti su Obama), ma molto di più. Secondo un informatissimo articolo di Andrew Romano su Newsweek, infatti, il candidato repubblicano sarebbe riuscito a colmare perfino il gap finanziario con Obama. Più che il senatore del'Arizona, a dire il vero, sarebbero stati i bravissimi raccoglitori di fondi del Partito repubblicano a riequilibrare le sorti economiche del confronto presidenziale. I numeri, sebbene rovesciati, sono sorprendentemente simili: Obama raccoglie molti più fondi di McCain per la sua candidatura personale (a luglio 65 milioni di dollari contro 21), ma viceversa il Partito repubblicano riesce a drenarne assai più dei democrat (75 a 26). Il risultato è una sostanziale parità con, semmai, un lieve vantaggio per il senatore dell'Arizona che – soltanto il mese scorso – ha incassato nel complesso 96 milioni di dollari. Contro i 91 di Obama.

Perché ora Israele guarda a est per nuove alleanze e coperture


Gerusalemme. Se Mosca accetterà l’offerta di Bashar el Assad e dispiegherà in Siria le sue batterie di missili terra-terra della classe Iskander, il premier israeliano Ehud Olmert imparerà che una telefonata può non essere abbastanza per tenere in piedi le relazioni tra due paesi. Arrivato ieri nella capitale russa, il presidente siriano ha ribadito al collega russo, Dmitri Medvedev, l’offerta che l’agenzia di stampa Interfax aveva anticipato il giorno prima: Damasco, ha spiegato il leader arabo, è disposta a ospitare i missili russi a media gittata e vorrebbe pure comprare una vistosa partita di armi – dal sistema di difesa aerea Pantsyr-S1 ai missili terra-aria Buk-M1 – anche per offrire a Mosca l’occasione per rispondere a stretto giro all’intesa tra Stati Uniti e Polonia sullo scudo antimissile europeo e “per rifarsi dell’affronto subito da Israele, che mandava in Georgia armi e addestratori per l’esercito di Tbilisi”. Qualche ora prima Medvedev aveva preso il telefono e aveva chiamato Olmert per rassicurarlo sulla “solidità dei rapporti russo-israeliani”, proprio mentre il ministro degli Esteri di Mosca, Sergei Lavrov, non escludeva “un’intesa con la Siria per forniture militari”, sia pure “a scopo esclusivamente difensivo”. I timori israeliani, che la telefonata di Medvedev non ha fugato, sono alimentati anche da altre due mosse di Mosca. Una è l’invio di una flotta di navi da guerra a capacità nucleare (guidata dalla portaerei Kutznetsov) nel Mediterraneo, partita quattro giorni fa da Murmansk e destinata ad arrivare entro domani nel porto siriano di Tartus con l’obiettivo di rimanerci. L’altra è la notizia della fine della collaborazione militare e strategica tra Russia e Nato, preannunciata con una semplice telefonata all’ambasciata norvegese a Mosca.
Per motivi opposti, anche a Gerusalemme la sensazione che il rapporto con i paesi dell’Alleanza atlantica (a eccezione di quello preferenziale con gli Stati Uniti) sia meno utile che in passato è piuttosto diffusa. I tentennamenti durante la crisi in Ossezia del sud e le perenni indecisioni dell’Unione europea riguardo il conflitto arabo-israeliano non sono indicatori di una copertura politico-militare adeguata per un paese che rischia di trovarsi alle prese, in tempi brevi, con la minaccia di uno scontro armato contro l’Iran in cerca dell’atomica. Non a caso, Gerusalemme ora guarda a est: sta intensificando i rapporti con stati da sempre considerati amici, ma che negli ultimi anni si stanno rivelando assai più importanti di un tempo sul piano commerciale e su quello geopolitico.

Barak e i missili Barak
Mentre a Vienna e a New York si discuteva dell’accordo nucleare tra Stati Uniti e India (che lo scorso primo agosto ha ricevuto il sostanziale via libera dall’Aiea), ieri fonti diplomatiche di New Delhi hanno rivelato il raggiungimento di un’intesa con il ministero della Difesa israeliano guidato da Ehud Barak per un programma di forniture militari da più di un miliardo e mezzo di dollari. In particolare, riferiscono i media indiani, le Industrie aerospaziali israeliane avrebbero ricevuto il nullaosta dal governo di New Delhi per la fornitura di batterie missilistiche terra-aria della classe Barak, oltre a quella di un sistema di difesa aerea. Secondo Aleksandr Pikayev, analista del Carnegie Institute di Mosca, “la mossa israeliana è in linea con la sua tradizionale politica estera, assai vicina a quella statunitense. Non a caso l’intesa sul nucleare con gli americani e quella con gli israeliani sulle armi arrivano quasi nello stesso momento”. Però, spiega al Foglio l’analista russo, “è anche il segnale che Gerusalemme vuole giocare la propria partita diplomatica e militare in prima persona, come sta accadendo anche in alcune repubbliche dell’ex Unione sovietica, come la Georgia e l’Uzbekistan. Che ciò accada al di fuori del Mediterraneo, diviso tra paesi arabi poco amichevoli e gli alleati indecisi d’Europa, è quasi scontato, anche perché Gerusalemme ha bisogno di diversificarsi sul piano geopolitico per avere un proprio peso specifico. Però finora i rapporti sono stati più che altro commerciali, nonostante la vendita di forniture militari”. Del resto, se il pericolo contro Israele arriva da est, Gerusalemme ha interesse a seguire con attenzione la partita geopolitica in quella direzione, e a imprimere una svolta diplomatica nel Caucaso. Quando gli iraniani otto anni fa arrestarono tredici ebrei con l’accusa di spionaggio, fu il Kazakistan del presidente Nazarbayev a fare da mediatore discreto tra i due paesi. Quanto alla Russia, dice Pikayev, “Gerusalemme tenterà di non compromettere ulteriormente i rapporti con Mosca, anche perché il problema della dipendenza energetica non esclude neppure Israele e portare i russi a schierarsi senza se e senza ma con la Siria e l’Iran non conviene, in primo luogo, proprio agli israeliani”.

(© Il Foglio, 22 agosto 2008)

Perché l’America porta soldati e uno scudo antimissile in Israele

Gerusalemme. L’avvertimento era stato chiaro. “L’Iran non deve presentare su un piatto d’argento ai suoi nemici le motivazioni per farsi attaccare”, aveva spiegato sabato scorso ai cronisti Suleiman Awwad, portavoce di Hosni Mubarak, al termine del vertice con il re saudita, Abdullah. A Teheran l’invito partito dal Cairo – che per il quotidiano arabo di Londra, al Quds, era “più di un semplice monito” – probabilmente non è mai arrivato. Poche ore più tardi, i responsabili dell’agenzia spaziale iraniana annunciavano il lancio di un nuovo razzo prodotto con tecnologia locale (ma con la collaborazione di scienziati russi), tappa iniziale di un programma di lungo termine che dovrebbe portare satelliti iraniani in orbita intorno alla Terra. Ancora ieri il direttore dell’agenzia, Reza Taghipour, annunciava di voler rendere partecipi “le nazioni musulmane nostre amiche” del successo, offrendo loro l’opportunità di sviluppare programmi spaziali congiunti.
La notizia del lancio iraniano del razzo Safir-e Omid, che in farsi vuol dire “ambasciatore di pace”, non è stata accolta positivamente da Stati Uniti e Israele. Nel corso di un briefing con la stampa, il portavoce del dipartimento americano per la Sicurezza nazionale, Gordon Johndroe, non ha nascosto la “preoccupazione circa le intenzioni di Teheran” perché, ha chiarito, un razzo in grado di lanciare in orbita un satellite può tranquillamente puntare più in basso e magari trasportare una testata esplosiva. Il problema, semmai, è la gittata: secondo fonti militari di Gerusalemme citate da Radio Israele, a preoccuparsi dovrebbero essere i paesi europei perché il Safir, se utilizzato per fini militari, potrebbe raggiungere persino Parigi e Londra. Né sembrano sufficienti a tranquillizzare occidentali e israeliani le generiche rassicurazioni di Teheran, che ha sottolineato l’interesse “esclusivamente scientifico” del proprio programma spaziale. A renderle meno credibili, oltre al test condotto il mese scorso dal regime dei mullah con i missili a lunga gittata Shihab-3, è stata un’altra notizia giunta nelle stesse ore: intervistato dal canale all news Press Tv, il generale Ahmad Mighani, comandante dell’aeronautica militare iraniana, ha annunciato l’ammodernamento dei cacciabombardieri della classe SU (di fabbricazione russa), “ora in grado di volare per tremila chilometri di fila senza dover fare rifornimenti”. I principali obiettivi israeliani ne distano appena mille.
Che un confronto militare (freddo o caldo è da vedere) sia imminente tra Gerusalemme e Teheran lo dicono pure le mosse dello stato ebraico. Quando, a fine luglio, il segretario statunitense alla Difesa, Robert Gates, e il suo omologo israeliano, Ehud Barak, si sono incontrati al Pentagono, nel comunicato ufficiale si parlava genericamente di un “impegno americano per potenziare gli strumenti di difesa di Israele”. Gli strumenti, anzi lo strumento altro non sarebbe che il più moderno sistema di radar antimissile in dotazione alle forze armate americane, per il momento concesso in uso a un solo alleato, il Giappone, per metterlo al riparo da eventuali minacce nordcoreane o cinesi. Il super radar da solo triplicherebbe la capacità di intercettazione di eventuali missili sparati contro Gerusalemme e le altre città israeliane. L’accordo non è ancora stato reso ufficiale, ma il recente vertice tra l’ammiraglio statunitense Mike Mullen e il capo di stato maggiore israeliano, Gabi Ashkenazi, avrebbe avuto come unico argomento proprio il nuovo sistema antimissile, sostengono concordemente tutte le fonti militari di Gerusalemme.
Neppure il radar X-Band potrebbe però neutralizzare un prossimo lancio di missili iraniani: secondo gli esperti, infatti, ci vorrebbero mesi, se non anni, per ottenere le autorizzazioni al dispiegamento dal ministero della Difesa israeliano, e nemmeno le postazioni sarebbero state ancora scelte, sebbene si parli con insistenza del Negev. L’arrivo imminente nel Golfo persico di altre due portaerei americane (la Teddy Roosevelt e la Reagan) e della nave da sbarco Iwo Jima – che contribuiranno a creare il più grosso dispiegamento navale statunitense nell’area dal 1991 – potrebbe essere il segnale che a Washington intendono fare sul serio.

(© Il Foglio, 18 agosto 2008)

domenica 17 agosto 2008

La gara per le primarie di Kadima è fatta nel nome del padre


La gigantografia che campeggia dietro al palco dell’auditorium del museo dell’aviazione di Herzliya dice molto sulle primarie che – per la prima volta – porteranno a una scelta dal basso di un leader di Kadima. Fu Ariel Sharon, nel 2005, a svuotare il Likud della sua forza riformista e a ridurlo a semplice movimento di destra, fondando un nuovo partito in grado di drenarne consensi. E’ ancora Sharon, oggi, a influenzare più di chiunque altro la successione al suo successore Ehud Olmert. L’ex premier è in coma da due anni e mezzo, nel frattempo lo scenario politico è radicalmente mutato e il suo ex vice dovrà dimettersi dalla carica di premier per i troppi scandali, eppure la corsa a tre per le primarie del 17 settembre sarà soprattutto una gara tra leader politici pronti a tutto pur di accreditarsi come eredi autentici dello sharonismo.
Avi Dichter, oggi ministro della Sicurezza interna e fino al 2005 capo dello Shin Bet, non ha nascosto questa sua aspirazione al momento di lanciare la candidatura. L’enorme ritratto di Sharon alle sue spalle e le parole che ha usato per dire che lui è l’erede del disegno politico dell’ex primo ministro spiegano al meglio il fascino che l’ex eroe del Kippur può ancora esercitare: “Ho accettato di far parte di Kadima perché condividevo la visione di Sharon e il suo modo nuovo di far politica. Mi chiedo dove sia finita oggi quella visione, se tutto sia andato perduto il giorno in cui lui è stato colpito da un infarto”. Per rendere credibile la sua strategia del ritorno alle origini, Dichter ha chiamato con sé sul palco Ra’anan Gissin, portavoce storico dell’ex premier. “Se è giusto dare credito più ai fatti che alle sole parole, allora i fatti dicono che il vero erede politico di Sharon è Dichter”, ha confermato Gissin. Non sono in molti, tra i maggiorenti di Kadima, a condividere la sua opinione. I numeri dicono che la scommessa di Dichter è persa in partenza: quando, tra un mese, i delegati del partito saranno chiamati a scegliere il successore di Olmert, per l’attuale ministro della Sicurezza pubblica i voti saranno pochi, almeno secondo i sondaggi. A dividersi la maggior parte dei consensi saranno altri due ministri in carica: la titolare degli Esteri, Tzipi Livni, e Shaul Mofaz, oggi al ministero dei Trasporti. Mofaz, che può vantare un’agguerritissima macchina di reclutamento degli iscritti, ha lasciato intendere che una sua premiership sarebbe tutt’altro che incolore (l’ex capo di stato maggiore, nato a Teheran, ha ripetuto in più occasioni che ulteriori provocazioni iraniane sul dossier nucleare non sarebbero tollerate da un suo governo). Livni, dopo aver raccolto gli endorsement della maggioranza dei parlamentari di Kadima e aver imparato che per vincere serve anche sorridere di tanto in tanto, ha cominciato un tour che non ha trascurato la minoranza drusa e quella araba, rivelatesi determinanti alle primarie di Avoda del 2007 per il successo di Ehud Barak.
Anche Livni e Mofaz hanno cercato di accreditarsi come eredi di Sharon. L’ipertelegenico ministro degli Esteri (secondo i sondaggi l’unica in grado di non soccombere, al voto, contro il Likud di Bibi Netanyahu), che ha puntato sulla formazione di una squadra di collaboratori di primo livello. Livni ha assunto quasi tutti i “saggi del ranch”, i più stretti consiglieri dell’ex premier. Reuven Adler, Eyal Arad e Yoram Raved sono entrati nel suo staff. Furono loro, nel corso di una delle riunioni di lavoro al Sycamore Ranch, a suggerire a Sharon la strategia per liberarsi del fardello ideologico del Likud. Kadima nacque così, e Livni era lì, quel giorno, seppure un po’ per caso.

(© Il Foglio, 15 agosto 2008)

martedì 5 agosto 2008

Così la Cecenia cinese è diventata il crocevia del terrore olimpico


Quando la portavoce del Comitato olimpico internazionale, Emmanuelle Tonge, dice che “quanto accaduto a Kashgar non ha a che fare con i Giochi”, dice in parte la verità. L’attacco che ieri mattina alle otto (ora locale, erano le due del mattino in Italia) ha causato la morte di sedici poliziotti cinesi e il ferimento di altrettanti ha poco a che vedere con le Olimpiadi, nel senso che queste sono soltanto il palcoscenico ideale per far emergere una lotta secolare tra il governo di Pechino e la minoranza musulmana del paese. Mentre il corrispondente della France Press ancora faticava a trovare riscontri alla notizia, l’agenzia di stampa statale Nuova Cina già faceva sapere che i due autori dell’attentato erano stati arrestati: secondo la ricostruzione ufficiale, i terroristi avrebbero lanciato a tutta velocità un camion bomba – originariamente destinato al trasporto dei rifiuti – contro un posto di polizia a Kashgar, una delle città principali della provincia autonoma dello Xinjiang. Dopo l’esplosione, i due avrebbero assaltato all’arma bianca altri agenti, ferendoli, prima di essere tratti in arresto. Per le autorità locali sarebbero esponenti del Movimento islamico del Turkestan orientale, un’organizzazione jihadista inclusa dagli Stati Uniti e dall’Onu, dopo l’11 settembre, tra le formazioni legate al network internazionale di al Qaida.
Attivo da quasi trent’anni, l’islamismo armato non è che l’ultima forma di rivolta tentata dalla minoranza musulmana in quel che un tempo era chiamato Uiguristan. Dall’invasione cinese del 1759 gli uiguri, un popolo di ceppo etnico turco che segue la corrente sufista dell’islam, hanno trovato tre volte la strada dell’indipendenza: nel 1866, all’inizio degli anni Trenta del Novecento e, dopo una breve parentesi, di nuovo nel decennio successivo. Quando nel 1949 l’establishment politico uiguro volò in Russia per un negoziato che avrebbe dovuto concludersi con un’annessione onorevole alla Cina maoista, l’aereo sul quale viaggiavano i leader della sperduta repubblica di confine tra l’Urss e l’ex celeste impero precipitò misteriosamente. I decenni successivi, fatti salvi i diversi costumi, sono stati speculari a quelli del vicino Tibet: colonizzazione da parte dell’etnia han con l’obiettivo di ridurre a minoranza la maggioranza di ascendenze turche, divieto di insegnamento nelle scuole di lingua e cultura uigura, divieto ai giovani sotto i diciotto anni di frequentare le moschee. La differenza con il Tibet è stata semmai nella reazione degli uiguri: a partire dagli anni Ottanta, ma soprattutto nel decennio successivo, la causa dell’indipendentismo si è sempre più assimilata a quella del fondamentalismo islamista. Fonti governative di Pechino parlano di 162 vittime in un decennio – tra il 1990 e l’inizio del nuovo secolo – in attentati dinamitardi di vario genere messi a segno soprattutto all’interno dei confini della provincia dello Xinjiang. Attentati che hanno facilitato il dialogo tra la Cina e gli Stati Uniti all’indomani dell’11 settembre, quando Washington ha cominciato a cercare amici per dichiarare guerra al jihadismo.

Oleodotti e campi qaidisti
La sua guerra agli islamisti turkestani – con un alleato forte come la Russia, alle prese con altri indipendentisti musulmani in Cecenia – la Cina l’aveva però dichiarata già nel 1997 con la creazione dell’Organizzazione di Shanghai per la cooperazione (Sco), alla quale aderirono buona parte delle vicine repubbliche dell’Asia centrale con l’obiettivo di proteggere il ricchissimo business regionale, quello degli oleodotti. Da allora le operazioni anti terrorismo sul suolo cinese sono diventate una routine: soltanto negli ultimi mesi, con l’approssimarsi dell’apertura dei Giochi olimpici, le autorità cinesi hanno fatto sapere di aver sventato un piano per far esplodere un volo di linea all’aeroporto internazionale di Pechino, di aver interrotto un dirottamento, di aver confiscato parecchie tonnellate di esplosivi, di aver arrestato terroristi “pronti a sequestrare giornalisti, turisti e atleti durante le Olimpiadi”. Secondo Human Rights Watch e Amnesty International, dietro a questi raid si cela la volontà dei leader di Pechino di ridurre al silenzio l’ennesima minoranza inquieta, ma è anche vero che – lo scorso aprile – il segretario generale dell’Interpol, Ronald Noble, aveva segnalato “il pericolo uiguro per i Giochi”. Lo scorso 23 luglio era stato lo stesso leader separatista dell’Etim, comandante Seyfullah, a preannunciare “attacchi con tecniche mai viste prima”. Detto dal successore di Hasan Mahsum, noto anche come Abu Muhammad al Turkestani, ucciso da soldati pachistani in un campo di addestramento qaidista nel sud del Waziristan nel 2003, è un avvertimento che lascia adito a pochi dubbi.

(© Il Foglio, 5 agosto 2008)

lunedì 4 agosto 2008

Un vecchio patto con il diavolo può creare guai a Obama


“Colui che non può accordarsi con i suoi nemici, finisce per essere controllato da loro”, recita uno dei dieci proverbi preferiti dal dottor Dragan Dabic, l’identità da psichiatra-santone che Radovan Karadzic, sul sito Internet in cui il guaritore new age si offriva per apparizioni in talk show o consulti privati, dicono avesse assunto negli anni della latitanza. In realtà, dopo che agenzie e giornali si sono appropriati in fretta delle informazioni contenute sulla scarna pagina web (“al dottore piacciono i cibi biologici locali e ha una predilezione per il riso integrale, i legumi, le mandorle, le noci, l’uvetta, i fichi secchi e l’acqua”) all’indomani della sua cattura, si è scoperto che il sito era una burla messa online poche ore dopo l’arresto dell’ex presidente della Repubblica serba di Bosnia.
Nonostante la pagina web fosse un falso, non è escluso che il proverbio cinese, a uno come Karadzic, possa piacere davvero. L’ex boia di Srebrenica, finito sotto processo con le accuse a suo carico di crimini di guerra e genocidio, sa che nella sua nuova posizione non può più negoziare nulla. Come Slobodan Milosevic – che a sua volta decise di sostenere da solo la propria difesa processuale – sa però che trasformare un procedimento giudiziario in un dibattito politico può aiutarlo a essere più forte. Conscio di non poter negoziare alcunché se non la vita (il Tribunale internazionale dell’Aia non commina la pena di morte), l’ex leader serbo-bosniaco ha raccontato d’un negoziato vecchio di dodici anni con l’allora inviato statunitense nei Balcani, Richard Holbrooke. “Siglammo un accordo che mi garantiva salva la vita e mi avrebbe evitato un processo come questo a patto che mi ritirassi subito dalla vita politica, e così feci”. Holbrooke – l’uomo che l’allora segretario di stato, Warren Christopher, scelse per concludere l’accordo di pace di Dayton che pose fine alla guerra tra Serbia e Bosnia – nega con decisione l’esistenza del patto con il diavolo Karadzic, dice che è “una menzogna” e sostiene di essere pronto a volare fino in Olanda per raccontare tutto quel che sa sulla vicenda. Non tutti gli credono. Due anni fa, nel corso di un’audizione al Congresso, l’ex diplomatico dovette giurare che quell’intesa nero su bianco tra l’Amministrazione Clinton e Radovan Karadzic non c’era mai stata per convincere i parlamentari statunitensi che si trattava soltanto di una leggenda. Ieri è stato l’ex ministro degli Esteri bosniaco (e acerrimo nemico di Karadzic), Mohammad Sacirbey, a ribadire invece che quell’accordo ci fu e che per anni fu rispettato. “Me ne parlò per la prima volta il diplomatico americano Robert Frowick, capo della missione dell’Osce in Bosnia nel 1996”, ha dichiarato l’ex ministro (responsabile per il suo paese, fino al 2000, dell’applicazione del trattato di Dayton) al canale all news iraniano Press Tv, precisando che Frowick era una fonte “degna della massima fede”, tanto che pure lui s’è detto pronto a raccontare la propria versione all’Aia. Che poi è la stessa versione dell’ex premier serbo-bosniaco Gojko Klickovic, per il quale “l’accordo Karadzic-Holbrooke firmato il 19 luglio del 1996 esiste” e sarebbe stato “in cinque punti”.
Se è vero, come raccontò anni fa l’ex parlamentare missino Giulio Caradonna che “gli americani nel dopoguerra avevano affidato la riorganizzazione della polizia italiana all’ex maggiore delle Ss, Karl Hass”, lo stesso che poi finì sotto processo con Erich Priebke per la strage delle Fosse Ardeatine, allo stesso modo non sarebbe strano pensare a un accordo raggiunto dalla diplomazia statunitense con Karadzic per garantire a quest’ultimo l’impunità in cambio di una rapida uscita di scena dalla politica balcanica. C’era ancora Milosevic con cui fare i conti, e infatti tre anni più tardi le armi tornarono a dettare i rapporti di forza in occasione della crisi kosovara.
Chi rischia però di rimanere danneggiato dall’eventuale conferma del patto Karadzic-Holbrooke è Barack Obama. Da settimane, a Washington, si parla infatti dell’ex ambasciatore clintoniano all’Onu come del perfetto segretario di stato per l’inesperto senatore dell’Illinois. Holbrooke – che come Madeleine Albright fa parte dei consiglieri di Obama per la politica estera – sembra avere le giuste caratteristiche per ricoprire quel ruolo. Qualora emergesse un suo ruolo nella stipula del patto con Karadzic, sarebbe però difficile per Obama garantirgli un posto nel suo staff e peggio ancora in un ipotetico gabinetto. Nonostante la retorica liberal del ritiro, anche i democratici sanno che l’America è ancora in guerra con il terrorismo islamico e scegliere come capo della diplomazia un ministro in grado di concordare un giorno con Osama bin Laden una buonuscita onorevole non sarebbe una bella premessa per uno che aspira a fare il commander in chief.
Alan Patarga

(© Il Foglio, 2 agosto 2008)

Addio Reagan


Se David Cameron dice che “non si può escludere un aumento futuro delle tasse” e John McCain si affretta a prendere le distanze dal presidente del suo comitato elettorale, Phil Gramm, perché quest’ultimo ha detto ai giornali che “la recessione è nella testa degli americani”, l’impressione che il matrimonio tra destra conservatrice e liberismo sia agli sgoccioli può sembrare qualcosa di più concreto. Nel Regno Unito il lascito politico di Margaret Thatcher fatica a trovare eredi disposti a raccoglierlo. Il quarantenne Cameron non ha mai rinnegato l’esperienza del thatcherismo, ma gli omaggi che lui e la nuova classe dirigente Tory tributano alla lady di ferro sono sempre più intermittenti e di maniera. Se non si può fare a meno di rendere ogni onore al leader politico vivente che riscuote ancora il più alto gradimento dell’elettorato del paese (un recente sondaggio l’ha messa, unico esponente di partito, al 48° posto tra le “cose” di cui i britannici vanno fieri), non necessariamente si deve fare della sua esperienza di governo la propria agenda. Secondo l’ex blairiano Stephen Pollard, presidente del Centre for a New Europe di Bruxelles e ascoltato consigliere di Cameron, “non siamo dinanzi alla spaccatura dei primi anni Ottanta, ma anche oggi il Partito conservatore è diviso. Se allora il confronto era tra i vecchi tory affezionati al paternalismo e i liberisti rampanti che avrebbero poi trovato spazio con la rivoluzione thatcheriana, oggi la divisione è tra chi vorrebbe ancora riproporre l’ultraliberismo di quegli anni senza alcuna revisione critica e chi, come Cameron e il suo gruppo dirigente, si propone di intraprendere un cammino parzialmente nuovo”.
La frattura interna, spiega al Foglio l’analista britannico, è scongiurata “dal cambio di parole d’ordine imposto da Cameron: oggi, anche a causa delle difficoltà globali, l’economia conta molto meno di un tempo nell’agenda e nella piattaforma del Partito conservatore. La destra britannica si sta concentrando con successo su altri temi, dalla sicurezza all’ambiente fino alla necessità di una riforma globale della società, e può farlo in questi termini perché, contrariamente a quanto accadeva un quarto di secolo fa, oggi il dibattito verte più sulle capacità e sulle competenze dei leader che non sull’ideologia. E’ la stessa cosa che sta accadendo negli Stati Uniti, dove è in corso un distanziamento, in economia, dei repubblicani dalla reaganomics, anche a causa delle difficoltà legate al caos dei mutui subprime e al sistema bancario. Certo, anche all’inizio degli anni Ottanta America e Regno Unito uscivano da un periodo economicamente terribile, ma l’ottimismo di allora – che ora sembra svanito – era possibile perché chi proponeva la soluzione iperliberista, come Margaret Thatcher o Ronald Reagan, lo faceva per la prima volta con il beneficio di chi non ha ancora sperimentato una cura inedita”.

Rimuovi il padre e la madre
Che negli Stati Uniti l’allontanamento dei repubblicani dalla tradizione reaganiana sia visibile è nei fatti. Lo ha detto alcuni giorni fa anche una lunga inchiesta del Wall Street Journal. “Persino parecchi eredi del reaganismo oggi sostengono la causa della necessità di maggiori controlli statali sull’economia”, ha scritto il quotidiano economico-finanziario. Gli interventi dell’Amministrazione Bush degli ultimi tempi – dal salvataggio di Bear Stearns a quello dei fondi parapubblici Freddie Mac e Fannie Mae – sono una dimostrazione del crescente interventismo economico d’oltreoceano. Il distinguo di McCain sulla “recessione mentale”, un’idea assai diffusa in molti think tank conservatori, è un omaggio al clima di paura che i fautori dell’intervento pubblico nell’economia non fanno nulla per smorzare. Al contrario di Cameron, che qualche giorno fa alla Bbc ha detto di non escludere un aumento delle tasse con un futuro governo conservatore “per far fronte all’emergenza”, McCain continua a predicare la riduzione delle aliquote ma con poca convinzione, tanto che in un’intervista al programma “This Week” dell’emittente Abc, incalzato dalle domande sul possibile aumento delle tasse, ha fatto una concessione: “Nulla rimarrà fuori dal tavolo delle trattative”.
Alberto Mingardi, direttore generale dell’iperliberista Istituto Bruno Leoni, spiega al Foglio che “l’associazione fra le idee liberali e i partiti di destra è stata una parentesi che probabilmente si è chiusa per sempre. Prima della Thatcher, i Tory non sono mai stati un partito liberista: erano, anzi, contrari al libero scambio perché sostenitori della grandeur imperiale. Il conservatorismo liberista nasce e muore con il thatcherismo e lo stesso si può dire del reaganismo. Pochi presidenti repubblicani, prima di lui, furono veramente liberali: di certo non Eisenhower e Nixon, tantomeno i due Bush e il candidato del ’96, Bob Dole. La verità è che il liberismo non è né di sinistra né di destra ma che, in quegli anni di disastri economici causati dal welfare voluto dalla sinistra, fu facile per i partiti moderati appropriarsi delle idee liberali per conquistare il potere. Anche in Italia, dove il mito della coppia Thatcher-Reagan servì fra il ’92 e il ’94 a dare due figure costituenti alla destra moderata, si prendono ora le distanze da quel modello, preferendo l’approccio statalista tipico del pentapartito ai rivoluzionari del libero mercato”.
Alan Patarga

(© Il Foglio, 31 luglio 2008)

Grazie Hoover

E’ grazie a un ferro vecchio del ’29 se i banchieri americani sanno che il caos dei mutui subprime rimarrà più o meno senza conseguenze per molti di loro: a loro non importa che le cronache si occupino di Freddie Mac e Fannie Mae, la strana coppia del credito immobiliare sponsorizzato (e salvato) dall’erario americano. Erano trascorsi meno di tre anni dal crollo di Wall Street quando l’allora presidente, Herbert Hoover, approvò la costituzione della Federal home loan bank, un’agenzia con dodici sedi distaccate e un compito ben preciso: concedere mutui di alto livello (e basso rischio) alle banche d’America per innescare una nuova apertura del credito immobiliare dopo gli anni bui della grande depressione. La ragione sociale era assai simile a quella che, più tardi, Fannie Mae (fondata nel 1938) e Freddie Mac (1970) avrebbero assunto. Le differenze, in sessantasei anni di storia, sono state semmai una questione di stile dettato dagli azionisti di riferimento delle tre agenzie. Freddie e Fannie, entrambe a capitale pubblico, sono state per anni oggetto dell’attenzione dei lobbisti e della politica e hanno anche conosciuto le polemiche sulle spese pazze per stipendi e buonuscite dei manager, i quali peraltro – nel corso degli anni – hanno via via accettato volentieri di usare formule creditizie sempre più rischiose, non disdegnando neppure i subprime, pur di espandere le quote di mercato delle loro creature. I dirigenti della Fhlb – nessun nomignolo per coprire la noia della sigla – hanno seguito un’altra strada e lo hanno fatto soprattutto perché non era la politica a condizionarli, bensì il mercato. L’azionista di riferimento dell’agenzia fondata da Hoover è un gruppo di 8.100 soci, tutte banche e istituzioni finanziarie che, insieme, rappresentano circa l’80 per cento dell’industria statunitense del credito. L’Amministrazione non detiene nemmeno un’azione, né direttamente né attraverso agenzie sussidiarie, e si limita a concedere – in virtù della grande rappresentatività della compagine sociale della Fhlb e della solidità dei suoi investimenti – un trattamento di favore: l’agenzia è completamente esente da tasse e può accedere al credito a condizioni quasi uguali a quelle del dipartimento del Tesoro.

La “mano invisibile” del signor H.
Fino all’anno scorso l’agenzia aveva onorato il suo ruolo di creditore di lusso senza grandi scossoni. Mentre il mercato del credito si ampliava in continuazione con nuovi e allettanti prodotti poi rivelatisi meno sicuri del previsto, la quota di mercato della Federal home loan bank rimaneva più o meno sempre la stessa. A giugno 2007 risultava che l’agenzia avesse prestato alle banche affiliate, nel complesso, circa 640 miliardi di dollari. Numeri in linea con quelli degli anni precedenti. Il 30 giugno di quest’anno la quota di prestiti era salita a 914 miliardi e i 274 di differenza sono molti più di quanti la Fed o l’Amministrazione Bush ne abbiano stanziati per coprire le discusse operazioni di Freddie e Fannie. Che il flusso di denaro concesso alle banche americane abbia centrato l’obiettivo di salvarle da una crisi di liquidità che le avrebbe travolte in massa lo dimostrano le notizie di questi giorni. Quattro tra le principali banche del paese – Bank of America, Citigroup, JP Morgan Chase e Wells Fargo – hanno annunciato lunedì l’intenzione di emettere bond “coperti”, sul tipo di quelli utilizzati in Europa per garantire gli investimenti immobiliari, con l’obiettivo di rendere più facile l’accensione di mutui negli Stati Uniti dopo lo shock dello scorso anno. Merrill Lynch ha invece deciso di disfarsi degli asset legati al caos dei mutui, a costo di perdere molti miliardi di dollari nell’operazione e di affrontare una dolorosa ricapitalizzazione pur di dimostrare di essere fuori dalla crisi e di assomigliare un po’ meno a Freddie e Fannie e un po’ di più al vecchio arnese creato da Hoover. Arnese che nessuno vede ma che tutti utilizzano.
Alan Patarga

(© Il Foglio, 31 luglio 2008)