Se David Cameron dice che “non si può escludere un aumento futuro delle tasse” e John McCain si affretta a prendere le distanze dal presidente del suo comitato elettorale, Phil Gramm, perché quest’ultimo ha detto ai giornali che “la recessione è nella testa degli americani”, l’impressione che il matrimonio tra destra conservatrice e liberismo sia agli sgoccioli può sembrare qualcosa di più concreto. Nel Regno Unito il lascito politico di Margaret Thatcher fatica a trovare eredi disposti a raccoglierlo. Il quarantenne Cameron non ha mai rinnegato l’esperienza del thatcherismo, ma gli omaggi che lui e la nuova classe dirigente Tory tributano alla lady di ferro sono sempre più intermittenti e di maniera. Se non si può fare a meno di rendere ogni onore al leader politico vivente che riscuote ancora il più alto gradimento dell’elettorato del paese (un recente sondaggio l’ha messa, unico esponente di partito, al 48° posto tra le “cose” di cui i britannici vanno fieri), non necessariamente si deve fare della sua esperienza di governo la propria agenda. Secondo l’ex blairiano Stephen Pollard, presidente del Centre for a New Europe di Bruxelles e ascoltato consigliere di Cameron, “non siamo dinanzi alla spaccatura dei primi anni Ottanta, ma anche oggi il Partito conservatore è diviso. Se allora il confronto era tra i vecchi tory affezionati al paternalismo e i liberisti rampanti che avrebbero poi trovato spazio con la rivoluzione thatcheriana, oggi la divisione è tra chi vorrebbe ancora riproporre l’ultraliberismo di quegli anni senza alcuna revisione critica e chi, come Cameron e il suo gruppo dirigente, si propone di intraprendere un cammino parzialmente nuovo”.
La frattura interna, spiega al Foglio l’analista britannico, è scongiurata “dal cambio di parole d’ordine imposto da Cameron: oggi, anche a causa delle difficoltà globali, l’economia conta molto meno di un tempo nell’agenda e nella piattaforma del Partito conservatore. La destra britannica si sta concentrando con successo su altri temi, dalla sicurezza all’ambiente fino alla necessità di una riforma globale della società, e può farlo in questi termini perché, contrariamente a quanto accadeva un quarto di secolo fa, oggi il dibattito verte più sulle capacità e sulle competenze dei leader che non sull’ideologia. E’ la stessa cosa che sta accadendo negli Stati Uniti, dove è in corso un distanziamento, in economia, dei repubblicani dalla reaganomics, anche a causa delle difficoltà legate al caos dei mutui subprime e al sistema bancario. Certo, anche all’inizio degli anni Ottanta America e Regno Unito uscivano da un periodo economicamente terribile, ma l’ottimismo di allora – che ora sembra svanito – era possibile perché chi proponeva la soluzione iperliberista, come Margaret Thatcher o Ronald Reagan, lo faceva per la prima volta con il beneficio di chi non ha ancora sperimentato una cura inedita”.
Rimuovi il padre e la madre
Che negli Stati Uniti l’allontanamento dei repubblicani dalla tradizione reaganiana sia visibile è nei fatti. Lo ha detto alcuni giorni fa anche una lunga inchiesta del Wall Street Journal. “Persino parecchi eredi del reaganismo oggi sostengono la causa della necessità di maggiori controlli statali sull’economia”, ha scritto il quotidiano economico-finanziario. Gli interventi dell’Amministrazione Bush degli ultimi tempi – dal salvataggio di Bear Stearns a quello dei fondi parapubblici Freddie Mac e Fannie Mae – sono una dimostrazione del crescente interventismo economico d’oltreoceano. Il distinguo di McCain sulla “recessione mentale”, un’idea assai diffusa in molti think tank conservatori, è un omaggio al clima di paura che i fautori dell’intervento pubblico nell’economia non fanno nulla per smorzare. Al contrario di Cameron, che qualche giorno fa alla Bbc ha detto di non escludere un aumento delle tasse con un futuro governo conservatore “per far fronte all’emergenza”, McCain continua a predicare la riduzione delle aliquote ma con poca convinzione, tanto che in un’intervista al programma “This Week” dell’emittente Abc, incalzato dalle domande sul possibile aumento delle tasse, ha fatto una concessione: “Nulla rimarrà fuori dal tavolo delle trattative”.
Alberto Mingardi, direttore generale dell’iperliberista Istituto Bruno Leoni, spiega al Foglio che “l’associazione fra le idee liberali e i partiti di destra è stata una parentesi che probabilmente si è chiusa per sempre. Prima della Thatcher, i Tory non sono mai stati un partito liberista: erano, anzi, contrari al libero scambio perché sostenitori della grandeur imperiale. Il conservatorismo liberista nasce e muore con il thatcherismo e lo stesso si può dire del reaganismo. Pochi presidenti repubblicani, prima di lui, furono veramente liberali: di certo non Eisenhower e Nixon, tantomeno i due Bush e il candidato del ’96, Bob Dole. La verità è che il liberismo non è né di sinistra né di destra ma che, in quegli anni di disastri economici causati dal welfare voluto dalla sinistra, fu facile per i partiti moderati appropriarsi delle idee liberali per conquistare il potere. Anche in Italia, dove il mito della coppia Thatcher-Reagan servì fra il ’92 e il ’94 a dare due figure costituenti alla destra moderata, si prendono ora le distanze da quel modello, preferendo l’approccio statalista tipico del pentapartito ai rivoluzionari del libero mercato”.
Alan Patarga
(© Il Foglio, 31 luglio 2008)
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