martedì 5 agosto 2008

Così la Cecenia cinese è diventata il crocevia del terrore olimpico


Quando la portavoce del Comitato olimpico internazionale, Emmanuelle Tonge, dice che “quanto accaduto a Kashgar non ha a che fare con i Giochi”, dice in parte la verità. L’attacco che ieri mattina alle otto (ora locale, erano le due del mattino in Italia) ha causato la morte di sedici poliziotti cinesi e il ferimento di altrettanti ha poco a che vedere con le Olimpiadi, nel senso che queste sono soltanto il palcoscenico ideale per far emergere una lotta secolare tra il governo di Pechino e la minoranza musulmana del paese. Mentre il corrispondente della France Press ancora faticava a trovare riscontri alla notizia, l’agenzia di stampa statale Nuova Cina già faceva sapere che i due autori dell’attentato erano stati arrestati: secondo la ricostruzione ufficiale, i terroristi avrebbero lanciato a tutta velocità un camion bomba – originariamente destinato al trasporto dei rifiuti – contro un posto di polizia a Kashgar, una delle città principali della provincia autonoma dello Xinjiang. Dopo l’esplosione, i due avrebbero assaltato all’arma bianca altri agenti, ferendoli, prima di essere tratti in arresto. Per le autorità locali sarebbero esponenti del Movimento islamico del Turkestan orientale, un’organizzazione jihadista inclusa dagli Stati Uniti e dall’Onu, dopo l’11 settembre, tra le formazioni legate al network internazionale di al Qaida.
Attivo da quasi trent’anni, l’islamismo armato non è che l’ultima forma di rivolta tentata dalla minoranza musulmana in quel che un tempo era chiamato Uiguristan. Dall’invasione cinese del 1759 gli uiguri, un popolo di ceppo etnico turco che segue la corrente sufista dell’islam, hanno trovato tre volte la strada dell’indipendenza: nel 1866, all’inizio degli anni Trenta del Novecento e, dopo una breve parentesi, di nuovo nel decennio successivo. Quando nel 1949 l’establishment politico uiguro volò in Russia per un negoziato che avrebbe dovuto concludersi con un’annessione onorevole alla Cina maoista, l’aereo sul quale viaggiavano i leader della sperduta repubblica di confine tra l’Urss e l’ex celeste impero precipitò misteriosamente. I decenni successivi, fatti salvi i diversi costumi, sono stati speculari a quelli del vicino Tibet: colonizzazione da parte dell’etnia han con l’obiettivo di ridurre a minoranza la maggioranza di ascendenze turche, divieto di insegnamento nelle scuole di lingua e cultura uigura, divieto ai giovani sotto i diciotto anni di frequentare le moschee. La differenza con il Tibet è stata semmai nella reazione degli uiguri: a partire dagli anni Ottanta, ma soprattutto nel decennio successivo, la causa dell’indipendentismo si è sempre più assimilata a quella del fondamentalismo islamista. Fonti governative di Pechino parlano di 162 vittime in un decennio – tra il 1990 e l’inizio del nuovo secolo – in attentati dinamitardi di vario genere messi a segno soprattutto all’interno dei confini della provincia dello Xinjiang. Attentati che hanno facilitato il dialogo tra la Cina e gli Stati Uniti all’indomani dell’11 settembre, quando Washington ha cominciato a cercare amici per dichiarare guerra al jihadismo.

Oleodotti e campi qaidisti
La sua guerra agli islamisti turkestani – con un alleato forte come la Russia, alle prese con altri indipendentisti musulmani in Cecenia – la Cina l’aveva però dichiarata già nel 1997 con la creazione dell’Organizzazione di Shanghai per la cooperazione (Sco), alla quale aderirono buona parte delle vicine repubbliche dell’Asia centrale con l’obiettivo di proteggere il ricchissimo business regionale, quello degli oleodotti. Da allora le operazioni anti terrorismo sul suolo cinese sono diventate una routine: soltanto negli ultimi mesi, con l’approssimarsi dell’apertura dei Giochi olimpici, le autorità cinesi hanno fatto sapere di aver sventato un piano per far esplodere un volo di linea all’aeroporto internazionale di Pechino, di aver interrotto un dirottamento, di aver confiscato parecchie tonnellate di esplosivi, di aver arrestato terroristi “pronti a sequestrare giornalisti, turisti e atleti durante le Olimpiadi”. Secondo Human Rights Watch e Amnesty International, dietro a questi raid si cela la volontà dei leader di Pechino di ridurre al silenzio l’ennesima minoranza inquieta, ma è anche vero che – lo scorso aprile – il segretario generale dell’Interpol, Ronald Noble, aveva segnalato “il pericolo uiguro per i Giochi”. Lo scorso 23 luglio era stato lo stesso leader separatista dell’Etim, comandante Seyfullah, a preannunciare “attacchi con tecniche mai viste prima”. Detto dal successore di Hasan Mahsum, noto anche come Abu Muhammad al Turkestani, ucciso da soldati pachistani in un campo di addestramento qaidista nel sud del Waziristan nel 2003, è un avvertimento che lascia adito a pochi dubbi.

(© Il Foglio, 5 agosto 2008)

Nessun commento: