lunedì 30 novembre 2009

Bandiere/2. La Croce sulla bandiera c'era già


Sarebbe bastato lasciarcela.

da Corriere.it - I leghisti esultano per la vittoria referendaria della destra elvetica. E, per bocca di Roberto Castelli, lanciano una nuova proposta. «Occorre un segnale forte per battere l'ideologia massonica e filoislamica che purtroppo attraversa anche le forze alleate della Lega» dice l'esponente del Carroccio. «Credo che la Lega Nord - prosegue - possa e debba nel prossimo disegno di legge di riforma costituzionale chiedere l'inserimento della croce nella bandiera italiana».

venerdì 27 novembre 2009

Bandiere/1. Chi glielo dice alla Cgil?


da Corriere.it - I politici polacchi hanno presentato un breve emendamento che mette al bando qualsiasi simbolo comunista dal paese dell'Est europeo. Il Senato ha infatti approvato una modifica all'articolo 256 del codice penale che dichiara illegali tutti i simboli comunisti. Chiunque li utilizza o ne è in possesso rischia fino a due anni di carcere per aver commesso il reato di «glorificazione del comunismo». Il Presidente della Repubblica Leck Kaczynski lunedì prossimo dovrebbe firmare la legge che probabilmente entrerà in vigore dal prossimo anno. A questo punto anche indossare t-shirt con l'immagine di Che Guevara o solamente canticchiare l'Internazionale nelle strade di Varsavia sarà considerato un crimine in Polonia. La nuova legge infatti proibisce espressamente tutte le immagini che inneggiano a sistemi antidemocratici: l'articolo afferma che è vietata «la produzione, la distribuzione, la vendita o il solo possesso di oggetti che richiamano al fascismo, al comunismo o ad altri simboli di totalitarismi». Uno dei principali promotori della norma è Jaroslaw Kaczynski, fratello gemello del Presidente della Repubblica e capo del partito di opposizione «Legge e Giustizia».

Deriva moralista


Prima Casoria, poi le escort, quindi i trans e ora persino la liaison neofascista. Possibile che l'Italia sia un paese tanto bigotto da dover valutare la sua classe politica solo ed esclusivamente in base alla sua vita e attitudine sessuale? Possibile che sia politicamente rilevante quasi solo quel che è penalmente irrilevante? O non sarà che a essere così bacchettone sia soltanto il circo mediatico-parlamentare, e il paese in realtà se ne frega?

La croce dei trans e l'Italia senza Croce


A non aver paura di farsi dare dei conservatori, ci sarebbe da chiedersi che paese sia quel paese che esclude il sacro, la storia e il valore della vita dal discorso pubblico – se non per esecrare tutte queste cose – e al tempo stesso eleva a paradigma della modernità il cambiamento di sesso e le pulsioni (d’erotismo, ma soprattutto d’egoismo) che circondano tale passaggio di genere.
Chiunque abbia acceso la tv anche per pochi minuti, negli ultimi giorni, se ne sarà reso conto: non si parla che di trans. Uomini diventati donne, imbottite di litri (sì, litri) di silicone, donne che sono o stanno diventando uomini: il trans va di moda (e porta ascolti) un po’ a tutti. A Porta a Porta, Annozero e Matrix se ne discute come di un fenomeno politico (e c’è quasi da rimpiangere Vladimir Luxuria), dopo aver discettato per mesi di prostitute. E lo stesso, con toni differenti, si fa a La vita in diretta, a Pomeriggio Cinque, fino alle Iene e al Grande fratello. C’è chi spiega quanto costi un rapporto mercenario con un uomo-donna, chi quanto sia caro operarsi, chi “quanto è difficile spiegare ai figli che ora sono una donna e al tempo stesso il loro papà”. E tutto questo a tutte le ore del giorno, non soltanto in fascia protetta. Perché, il ragionamento sottinteso non può che essere questo, “tanto con Internet è inutile nascondere qualsiasi cosa ai figli”. Sarà, però in questo stesso paese che non si premura di nascondere nulla ai bambini, dal sesso alla violenza più estremi e deviati, ci si premura di nasconder loro quel che un tempo era il primo insegnamento.
Prima di leggere, di scrivere e di far di conto, una volta s’insegnava ai figli a raccomandarsi l’anima al Signore. Niente di impegnativo, poche preghiere da mandare a memoria, una sorta di appuntamento anticipato (e per forza di cose compreso solo in parte) con il mistero del sacro. Adesso una sentenza della Corte europea di giustizia – che fortunatamente non è stata accolta con i soliti alleluia di parte – dice che ai piccoli italiani debba essere impedita la visione del Crocifisso nelle scuole. Una “violenza” (letterale) alla libertà religiosa loro e dei loro genitori, secondo i giudici comunitari, che uno Stato laico non potrebbe perpetrare. Sono più o meno le stesse motivazioni che, negli ultimi anni, hanno spinto ad abdicare a tutto un insieme di tradizioni – religiose, in senso stretto, ma culturali in senso assai più ampio – nel nostro paese. Una, apparentemente minore, è quella del presepe nelle scuole. Ma, in questi casi, si comincia sempre con il bersaglio piccolo per colpire in un secondo momento quello principale. L’Italia senza Croce può essere lo stesso paese che è l’Italia con la Croce? La risposta, anche per il più infervorato degli atei, non può che essere negativa. Senza la Croce, il nostro è un paese depauperato di buona parte della sua storia sociale e architettonica, un paese incomprensibile per un visitatore. O per chi, come i bambini, arriva soltanto ora ad abitarvi.
Eppure, la stessa Europa che non vuole far vedere il Crocifisso ai bimbi non dice nulla riguardo il martellamento di sesso-senza-amore cui i figli degli italiani sono ormai sottoposti ora dopo ora. Ma lì il discorso è diverso. Si capisce da come rispondeva a una domanda, qualche giorno fa, un uomo diventato donna ma rimasto padre di due figli: “Io mi sentivo donna, loro hanno capito anche se sono ancora minorenni”. Avranno capito davvero? Difficile crederlo. Difficile, però, è soprattutto pensare che una persona che ha degli obblighi derivanti dall’amore verso altre persone (i figli) debba far affrontare loro una situazione psicologicamente pesantissima (e dall’esito tutt’altro che scontato) per puro egoismo. In un paese senza Croce, che è pur sempre il simbolo del più alto gesto d’altruismo della storia umana, è evidente che la norma debba essere questa. E’ evidente che, per egoismo, si debba poter cambiare sesso, far soffrire i figli o magari non farli nascere proprio. E chi chiede d’esporre un simbolo d’amore, chi ricorda la propria storia, chi dice no all’aborto – in un paese così – è un bieco conservatore. E allora sarò pure retrivo, ma lasciatemi dire che una Croce in classe non ha mai fatto male a nessuno, che quest’anno farò un presepe doppio e che una donna infelice è sempre meglio di un bambino morto.
Alan Patarga

(da La Cronaca di Piacenza, La Voce di Mantova e La Voce di Romagna)

Perché è una crisi da gattopardi


In questi giorni è caduto il primo anniversario del crac di Lehman Brothers, la banca d’investimenti americana il cui fallimento – solo in apparenza improvviso – ha convinto tutti, anche i più scettici, dell’esistenza di una grande crisi economica. Già prima di allora, nei mesi dell’affaire Bear Stearns e poi nell’estate del 2008, s’era discusso parecchio del sopravvenire di una fase difficile per l’economia globale. Qualcuno, anche tra i più avveduti, cominciò a parlare di “un nuovo ’29”, ossia d’una crisi paragonabile soltanto – per intensità e danni collaterali – a quella che portò alla Grande Depressione. Chi parlava, a ragione, di paure e di speranze, non resistette al parallelo immaginifico con l’America cupa di Hoover e a una ricetta vecchia più di Roosevelt per uscirne: il ricorso allo Stato, ossia alla finanza pubblica, per raddrizzare le “storture” del mercato. Un mercato – dicevano – impazzito a causa del proliferare di nuovi e incontrollabili strumenti finanziari, i derivati su mutui e altri contratti di debito, che presto sarebbero diventati carta straccia, riducendo al medesimo stato buona parte della finanza e dell’economia reale.
Così, all’appropinquarsi della crisi, la soluzione più ovvia (e più saggia) è parsa a tutti, o quasi, il ricorso al denaro pubblico: per evitare la chiusura di banche, compagnie assicurative e imprese (in primis, le case automobilistiche statunitensi) “troppo grandi per fallire” si sono spesi migliaia di miliardi in tutto il mondo. In America, soprattutto, ma non soltanto. L’euforia neostatalista ha preso un po’ tutti, e l’aver salvato (a carissimo prezzo) centinaia di istituzioni finanziarie, è sembrato a molti il risultato indispensabile perché si arrivasse a un punto di svolta. Si dice ora che i “segnali di ripresa” ci sono, e che sono sempre più numerosi. E’ vero, come è vero che essi provengono dalle imprese e dal mondo del lavoro, e non dalla finanza. E anzi sono stati parecchi, in questi mesi, i segnali di stasi – a dispetto delle iniezioni di capitale pubblico, cioè di proventi delle tasse di tutti i cittadini – provenienti dall’industria del credito. Molte banche, soprattutto i grandi istituti con grandi strategie globali e scarsa attitudine locale, hanno incassato, ringraziato, e poi hanno cercato di limitare al minimo sindacale la concessione di nuovi prestiti (o la rinegoziazione di quelli vecchi). Diverso il discorso, almeno in Italia, per tante banche popolari o del credito cooperativo che – al contrario – non si sono tirate indietro nel momento del bisogno. E però è la tendenza complessiva a contare, non le eccezioni, per quanto lodevoli.
Un anno dopo il grande choc di Lehman Brothers e degli scatoloni portati via in fretta e furia dai suoi dipendenti ormai senza lavoro, sono almeno due le lezioni che si possono trarre da tutta questa vicenda. La prima – lampante, perché sono i numeri dell’economia reale a dirlo – è che non c’è stato nessun ’29. Le difficoltà, quelle sì, non sono mancate. E sono state difficoltà capaci di costare la serenità e il benessere di tante famiglie in tanti paesi. Ma il tracollo globale, la depressione endemica, la tabula rasa del modello economico capitalistico sono tutte cose che, pur annunciate e quasi vaticinate, non si sono poi verificate.
L’altra lezione, è che s’è trattato d’una crisi da gattopardi. Come nel romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, s’è cercato di cambiare tutto (a parole), perché tutto restasse com’era. L’assetto della finanza americana, con qualche inevitabile fusione e qualche testa caduta qua e là, è grossomodo lo stesso di dodici mesi fa. I mutamenti, se ce ne sono stati, in Europa sono stati se possibile ancor più impercettibili. Lo stesso presidente americano, Barack Obama, ha sottolineato qualche giorno fa che troppe cose sono rimaste le stesse d’un tempo. Non ha spiegato perché, e un po’ va capito. Sarebbe stato difficile ammettere che ciò è stato possibile proprio grazie all’intervento (da lui praticato e caldeggiato) degli Stati nelle economie. Sia prima, sia dopo la crisi. In un saggio sulla Grande Depressione, l’economista libertario Murray Rothbard spiegava bene che una crisi altro non è che “un’esplosione di errori” degli attori dell’economia. Un risultato raggiungibile ad una sola condizione: che qualcuno induca a sbagliare, tutti insieme, imprenditori e consumatori. Il modo migliore per limitarne la libertà e indurli all’errore è immettere moneta (con prestiti facili) sul mercato: i “soldi facili” dirotteranno le loro scelte di investimento. Esattamente quel che è accaduto negli anni di Alan Greenspan alla Federal Reserve. Insomma, la causa della crisi è lo Stato che crea artificialmente un’espansione (una bolla) che prima o poi si sgonfia. Il vaccino a tutto questo, un anno fa, era a portata di mano: lasciar fallire chi, esplosa la bolla, non aveva più i numeri per stare sul mercato. Lasciare, cioè, che l’economia americana (e, di conseguenza, quella globale) si ridisegnasse autonomamente, ripulendosi delle scorie dell’ingordigia creata ad arte dalla Fed. Foraggiarla con aiuti pubblici non poteva che portare alla conseguenza opposta: lasciare tutto com’era, salvo un po’ di maquillage. E tutti pronti a credere anche alla prossima bolla.
Alan Patarga

(da La Cronaca di Piacenza, La Voce di Mantova e La Voce di Romagna)