martedì 23 ottobre 2007

Fa freddo, ma è la fine di ottobre non del mondo. E succede da dieci anni


Roma. Che faccia freddo è un fatto. Che faccia caldo, una teoria. Eppure, a leggere le cronache e a sentire parecchi notiziari meteorologici, l’arrivo di un’ondata di gelo sull’Italia sembrerebbe la riprova – nientemeno – che delle catastrofiche previsioni dei sostenitori del global warming. Che la contraddizione sia nei termini stessi del problema, lo dicono i dati climatici degli ultimi anni. Il blocco di bassa pressione che si è formato sulla Scandinavia ha richiamato aria molto fredda di origine artica verso sud, fino a toccare l’Italia, e in particolare la costa adriatica e le regioni meridionali. Come spiegava il 15 ottobre Andrea Meloni, esperto di MeteoGiornale.it, un sito Internet italiano dedicato esclusivamente all’analisi dei fenomeni atmosferici, “nel semestre freddo, quando in Europa il flusso di venti atlantici è assente, sovente si realizza un’area di bassa pressione in Scandinavia (...) è un’evoluzione che abbiamo vissuto parecchie volte negli ultimi anni, specialmente in novembre”, ma che non è poi così rara nemmeno in ottobre. E’ sufficiente leggere gli annuari meteorologici degli ultimi anni per trovare conferma: il servizio meteorologico online ricordava come fenomeni simili si fossero registrati nell’ultima decade di ottobre nel 1997, nel ’98, nel ’99, nel 2002 e nel 2003. “Al contrario, alla fine di ottobre del 2004 si registrò un’ondata di caldo estivo al sud e in Sicilia”, quella sì fuori stagione. “Seppur estreme, le linee di tendenza climatica per le prossime due settimane di ottobre indicano condizioni già vedute nel passato”, concludeva l’esperto di MeteoGiornale.it. Le previsioni (incluse le nevicate a bassa quota e la bora a Trieste) si sono rivelate esatte al millesimo, motivo in più per credere alle parole dell’esperto. E’ lo stesso esperto che, il 12 ottobre scorso, rilevava come “di questo ottobre non si può di certo dire che sia caldo: le temperature sono generalmente prossime alle medie (...) La scorsa estate ha veduto tantissima pioggia nei paesi dell’Europa nordoccidentale, come non accadeva da decenni, con l’aggiunta che è stata una stagione straordinariamente fresca”. E proseguiva dicendo che “quel che inizia a far notizia, e di cui sempre più spesso parleremo, è il freddo precoce, persino violento, che potrebbe, così prospettano i modelli matematici, investire a più riprese il nord dell’Europa e pesantemente il suo est, con imponenti ondate di gelo” in grado di lambire anche il Mediterraneo e l’Italia, fino a pochi giorni fa ancora inaspettatamente (e tardivamente) temperati.
Così, se può sembrare verosimile che non ci siano più le mezze stagioni (luogo comune vecchio almeno quanto quello per cui “sono sempre i migliori quelli che se ne vanno”), meno verosimili sembrano gli allarmi di quegli scienziati che parlano di “tempo pazzo” (ma non era marzo?), come ha fatto ieri – a un congresso di meteorologi a Vienna – il climatologo Giampiero Maracchi, direttore dell’Istituto di Biometeorologia del Cnr di Firenze: “Gli anticicloni delle Azzorre e della Siberia – spiegava – che portavano l’estate e l’inverno, si stanno modificando e il risultato è un tempo pazzo. Il fatto è preoccupante, perché le variazioni si avvertono di più”. Eppure i dati dicono che quel che sta accadendo in questi giorni è accaduto – 2004 a parte – più o meno tutti gli anni. Da un decennio, cioè, l’inverno arriva in anticipo (e d’estate fa molto caldo soltanto per pochi giorni, soprattutto in giugno). Non fosse che nessuno (o quasi) ci crede, sarebbero da prendere per buone le teorie del professore canadese Timothy Patterson, direttore del Geoscience Centre della Ottawa-Carleton University, secondo il quale “è il global cooling, non il global warming, il maggior pericolo per il clima mondiale, la cui unica costante nella storia della Terra è che cambia di continuo”.
Alan Patarga

(© Il Foglio, 23 ottobre 2007)

sabato 20 ottobre 2007

Giorni contati


Silvio, pensaci tu ad avverare la profezia...

venerdì 19 ottobre 2007

Il NYT e l'ombra di Murdoch

Roma. Gli azionisti di minoranza che vendono in blocco, il titolo che crolla, la possibilità del delisting e l’ombra di Rupert Murdoch. Per Arthur Ochs Sulzberger jr., detto “Pinch” (suo padre, Arthur senior, era soprannominato “Punch”), dal 1992 a capo della New York Times Company, non è stata una bella settimana. Mercoledì mattina un lancio dell’agenzia Bloomberg ha reso noto quello che ai vertici della holding che pubblica il New York Times e il Boston Globe temevano da tempo: l’uscita di scena di Morgan Stanley Investment Management, il fondo che – con il suo 7,2 per cento del capitale – era il secondo investitore istituzionale della compagnia e il principale antagonista della famiglia Sulzberger tra i soci. L’uscita di Morgan Stanley preoccupa i Sulzberger perché temono l’arrivo di azionisti ancora più ostili.
Morgan Stanley era entrata nel gruppo NYT nel 1996, ma era soltanto da due anni che lo spregiudicato direttore del fondo d’investimento della banca americana, Hassan Elmasry, aveva deciso di muovere una sua personalissima guerra a una delle dinastie più longeve dell’editoria statunitense. La sua battaglia si è apparentemente conclusa mercoledì mattina con la decisione di vendere (l’acquirente è rimasto finora sconosciuto) i dieci milioni di azioni in mano a Morgan Stanley, un patrimonio in titoli valutato circa 183 milioni di dollari.
Elmasry aveva a lungo tentato di convincere la famiglia Sulzberger, sostenuto in questa operazione da numerosi azionisti di minoranza, a rinunciare al sistema di voto che permette loro, con azioni pesanti di “classe B”, di controllare nove membri del board su tredici pur non detenendo più da tempo il pacchetto di maggioranza della holding.
In due anni di contestazioni pubbliche delle scelte aziendali (come la vendita di alcune emittenti televisive di proprietà del gruppo per ripianare il deficit o la decisione di acquistare il portale di inserzioni About.com), Elmasry era riuscito a portare sulle sue posizioni, la scorsa primavera, il 42 per cento degli azionisti. Tanti, tenuto conto che nel 2006 la quota degli scontenti era ancora ferma al 30 per cento. Ma, evidentemente, non abbastanza per garantire alla cordata organizzata da Morgan Stanley un possibile controllo del gruppo.
Alle prime indiscrezioni sulla vendita, Wall Street ha reagito male, facendo crollare il titolo della New York Times Co. di oltre il 3 per cento, fino a 18,29 dollari, minimo storico dal dicembre 1996. Nel 2002 la quotazione aveva toccato i 53 dollari per azione. Ciononostante, secondo Edward Atorino, analista di Benchmark Company, “Arthur Sulzberger non perderà il sonno”. Non tutti la pensano come lui, a Wall Street. Il pericolo che l’azione di disturbo di Elmasry potesse andare a buon fine era reale. Un esempio concreto era l’assalto, riuscito, di Rupert Murdoch alla Dow Jones Corp., proprietaria del Wall Street Journal. Vero è che il magnate australiano era riuscito nell’impresa grazie alle divisioni interne alla famiglia Bancroft, ma lo stesso finanziere di origini egiziane avrebbe potuto tentare – alla lunga – un’opzione simile. Un pericolo che Pinch Sulzberger non sembra intenzionato a correre ancora, anche in considerazione del fatto che l’altro socio ribelle, T. Rowe Price (che possiede il 14 per cento delle azioni di “classe A”) è ancora lì, pronto a riprendere la battaglia. Così, la soluzione migliore per garantire il controllo del gruppo alla famiglia Ochs-Sulzberger potrebbe essere il delisting, l’uscita dalla Borsa. Secondo Porter Bibb, dirigente di Mediatech Capital Partners ed ex di New York Times Co., dopo Elmasry “potrebbe esserci un esodo di azionisti istituzionali. A quel punto i Sulzberger dovranno sedersi intorno a un tavolo e decidere se non sia arrivato il momento di tornare una private company”.
Abbandonare Wall Street sarebbe un modo anche per allontanare l’ombra dello stesso Murdoch (già proprietario del tabloid New York Post e della Fox) che, dopo aver conquistato il Wall Street Journal, potrebbe puntare al glorioso Times. La proposta di legge sulle concentrazioni editoriali che renderebbe compatibile la proprietà di giornali e tv nella stessa città, presentata in questi giorni, glielo consentirebbe.
Alan Patarga

(© Il Foglio, 19 ottobre 2007)

giovedì 18 ottobre 2007

Quella volta che io, Christian Rocca e Tom Wolfe...


Oggi nel paginone centrale del Foglio ci sono tre articoli: uno del sottoscritto sui successi del "surge" iracheno del generale Petraeus (vedi sotto), uno del maestro Christian Rocca sul patriottismo di Hollywood e uno imperdibile di Tom Wolfe sull'Idea Americana. Andate subito a comprare il giornale.

Anche i giornali liberal dicono che Petraeus sta vincendo in Iraq


"Missione compiuta”, titola un lungo reportage del magazine britannico Prospect, e l’articolo non è dedicato al Nobel per la pace di Al Gore, ma alla campagna americana in Iraq.
Per la rivista inglese, la questione morale non si pone nemmeno. “Secondo ogni standard etico – scrive Bartle Bull, autore dell’analisi – l’attuale progetto della coalizione in Iraq è di quelli giusti. La Gran Bretagna, l’America e gli altri alleati dell’Iraq sono lì come ospiti di un governo indicato con un forte mandato dagli elettori iracheni secondo i dettami di una Costituzione legittima. Le Nazioni Unite hanno approvato il ruolo della coalizione nel maggio del 2003 e da allora lo hanno rinnovato ogni anno, l’ultima volta lo scorso agosto. Allo stesso tempo, chi era o è nel campo avverso di questa guerra è annoverabile tra i peggiori personaggi della politica globale: i baathisti, ossia i nazisti del medio oriente; i fondamentalisti sunniti, ossia i principali oppositori del progresso nella lotta tutta islamica alla modernità; il governo dell’Iran”. L’analista di Prospect spiega con realismo che anche un intervento in Ruanda sarebbe stato giusto, ma che nello sventurato paese africano non c’erano ingenti riserve petrolifere. “L’Iraq non è il Ruanda – scrive – ma due o tre bombe al giorno non fanno nemmeno un Vietnam”. E che non è un Vietnam, l’Iraq di oggi, lo dimostrano i fatti: “A tre anni e mezzo dall’inizio della guerriglia – racconta Bull – la maggior parte delle grandi domande irachene ha avuto una risposta tendenzialmente positiva. Il paese è unito. E’ andato alle elezioni. Ha dato vita a una Costituzione equa e popolare. Ha evitato la guerra civile. Non è caduto in mano all’Iran. Ha messo fine al genocidio curdo e all’apartheid per gli sciiti. Ha scongiurato la vendetta di massa contro i sunniti”.
Insomma, “la missione in Iraq può dirsi più o meno compiuta, seppure sia stata imperfetta e costosa”. La violenza esiste ancora, sebbene in calo, “ma è soprattutto circoscritta a livello locale e di stampo criminale. Il fatto più importante dell’Iraq di oggi è che la violenza, per quanto tragica, ha smesso di avere una matrice politica e non è più importante com’era in precedenza”. Bull racconta di come le violenze sunnite siano in larga parte cessate: i baathisti trattano “per entrare nella tenda con americani e sciiti”, le tribù della provincia di Anbar si sono alleate con le truppe della coalizione “e pacificare il cuore della guerriglia sunnita era considerato un obiettivo irraggiungibile non più tardi della scorsa primavera”. Soltanto i fondamentalisti wahhabiti, per lo più stranieri, “continuano a passare il confine per farsi saltare in aria in cerca delle 72 vergini del paradiso”. Nemmeno la guerra civile di cui tanto si parla c’è mai stata: “Nessuna linea del fronte, nessuna secessione, nessun tentativo di conquista del potere o di imporre cambi costituzionali, nessun governo parallelo, nemmeno un leader disposto ad andare in pubblico (…). La dimostrazione più eclatante l’ha data il tentativo, l’estate scorsa, dell’ufficio del premier al Maliki di richiamare in servizio gli ex soldati e ufficiali dell’epoca baathista: hanno risposto in 48.600. Maliki ne ha presi cinquemila, ha dato lavoro nella pubblica amministrazione ad altri settemila e agli altri ha concesso la pensione”. E il cessate il fuoco proclamato lo scorso agosto dall’Esercito del Mahdi di Moqtada al Sadr “in realtà era in vigore dal 2004”, dopo la battaglia di Najaf.
La voce di Prospect (che si aggiunge a quelle del New York Times e del Washington Post dell’estate scorsa, e soprattutto ai dati portati al Congresso a metà settembre dal generale David Petraeus e dall’ambasciatore americano a Baghdad, Ryan Crocker) non è isolata, in questi giorni. Proprio ieri, anche l’ultraliberal Los Angeles Times, in una corrispondenza da Baghdad firmata da Christian Berthelsen, ha riconosciuto come alle minacce dei qaidisti d’Iraq sulle stragi durante il mese di Ramadan non siano seguiti i fatti. “Il numero di attacchi durante le quattro settimane del mese sacro – si legge nel resoconto – è stato di gran lunga inferiore a quello dell’anno scorso”. I colpi ci sono stati, e uno anche importante: “L’uccisione dello sceicco Abdul Sattar Abu Risha, alleato chiave degli americani contro al Qaida nella provincia di al Anbar. Oppure le 25 vittime di un’autobomba a un vertice per la riconciliazione tra sunniti e sciiti a Diyala, lo scorso 24 settembre. Ma nel complesso le violenze sono diminuite del 40 per cento rispetto al Ramadan del 2006 e le vittime americane si sono dimezzate a quota 49, un minimo storico se accostato alle 98 dell’anno scorso, alle 93 di quello precedente, alle 104 del 2004 e alle 88 del 2003”. Il proclama dello Stato islamico d’Iraq, uno dei gruppi più attivi della guerriglia sunnita, è stato smentito dai fatti. E non è soltanto in negativo (dal minor numero di vittime militari e civili) che si può registrare il successo del “surge” dei generali Petraeus e Odierno. Nelle ultime settimane sono stati parecchi, in Iraq e non soltanto, i sospetti terroristi catturati dagli americani e dai loro alleati. L’ultimo è stato Jamal Badawi, leader qaidista yemenita, fermato dalla polizia del suo paese pochi giorni fa e considerato responsabile, nel 2000, dell’attacco alla nave USS Cole nel porto di Aden.
Persino il settimanale tedesco Spiegel, che aveva brillato per pacifismo, ha parlato recentemente di un Iraq pacificato e di un’America vittoriosa. Anzi, le parole dell’inviato Ullrich Fichtner sono quelle che, meglio di qualunque altra, illustrano la situazione: “Da giugno, la gente di Ramadi ha visto la guerra soltanto in tv. E i comandanti americani dell’Operazione Iraqi Freedom, a Baghdad, non credevano ai loro occhi, leggendo i rapporti redatti dalle unità locali. Autobomba esplose: zero. Mine scoppiate: zero. Razzi sparati: zero. Granate lanciate: zero. Colpi d’arma da fuoco: zero. Depositi di armi scoperti: decine. Terroristi arrestati: tanti”.
Alan Patarga

(© Il Foglio, 18 ottobre 2007)

mercoledì 17 ottobre 2007

Per Franco Prodi l’unica certezza sul climate change è che il clima cambia


Roma. Dice di non essere “un negazionista” del global warming, Franco Prodi, “ma nemmeno un catastrofista pronto a dire che la Terra scomparirà, perché ci sono troppe cose che ancora non sappiamo del nostro clima e delle sue variabili”. Intervenuto a un dibattito sul tema “Climate change: miti e falsi miti tra informazione e disinformazione” organizzato ieri alla Luiss, il direttore dell’Istituto di Scienze dell’atmosfera e del clima del Cnr (e fratello del premier Romano) che lo scorso mese aveva bocciato la conferenza sul clima organizzata dal governo ha ridimensionato il ruolo dell’uomo nel processo di surriscaldamento terrestre. “I fattori che hanno portato a un graduale innalzamento delle temperature – ha spiegato il ricercatore bolognese – sono numerosi, e molti non hanno nulla a che vedere con l’attività umana. La variabilità dei cicli solari, ad esempio, incide sul clima e sulle temperature, e questo è vero per periodi lunghi centinaia di migliaia di anni, ma anche per sottoperiodi più brevi. Anche nell’ultimo millennio abbiamo assistito a mutamenti climatici dovuti a questi cicli. Poi, negli ultimi duecento anni, abbiamo avuto la ‘complicazione’ dell’uomo industriale, questo è vero, ma per l’appunto non è semplice stabilire quale sia in realtà ‘l’effetto antropico’ sul clima, perché le serie storiche esistenti, rese possibili dall’invenzione del termometro e di altre apparecchiature come il barometro, risalgono a poco più di due secoli fa, a Galileo e a Torricelli”. E a chi – proprio alla conferenza governativa sul clima di settembre – aveva citato dati secondo i quali in Italia le temperature medie sarebbero cresciute quattro volte di più che nel resto del mondo, Prodi ha risposto indirettamente (dopo averlo fatto a caldo negli stessi giorni dell’evento), mostrando e spiegando le cifre reali: “Nell’ultimo secolo – ha raccontato – le temperature sono cresciute di circa sette decimi di grado. In Italia l’aumento registrato è stato di un grado ogni cento anni, ma non è vero che da noi abbia fatto più caldo, in proporzione, che altrove: semplicemente la media mondiale tiene conto anche delle superfici degli oceani, sulle quali non vengono effettuati rilievi termici, non essendoci stazioni di rilevamento. Facendo una media delle sole terre emerse, scopriremmo che l’incremento italiano è uguale a quello di tutte le altre regioni del pianeta”. Anche il ruolo del CO2 è stato ridimensionato da Prodi: “Certo che influisce sul riscaldamento della Terra – ha sottolineato il climatologo – ma è pure vero che esiste una miriade di altri fattori, e di molti non sappiamo abbastanza, come degli scambi oceani-atmosfera. In realtà stiamo cercando di realizzare dei modelli di monitoraggio completi, che tengano conto di tutti i fattori, ma ancora non li possediamo. E, se anche li avessimo già, dovremmo tener conto che spesso il sistema climatico può avere un comportamento non lineare”.
A fronte di tanta incertezza, Brian Flannery del colosso petrolifero ExxonMobil (proprietario dei marchi Esso e Mobil), che non teme l’accusa di sostenere interessi di parte, ha chiarito come la prudenza dovrebbe essere la prima regola da seguire, in tema di politiche ambientali: “Bisognerebbe ridurre i rischi, ma a costi accettabili per la società, non chiedendo di abbandonare risorse energetiche collaudate in favore di tecnologie che, allo stato attuale, non sappiamo quanto e come saranno accessibili e a che prezzo. Nel frattempo, l’impegno di tutti i paesi e delle imprese dovrebbe essere rivolto a una politica di efficienza energetica e di sostegno alla ricerca in vista di una riduzione delle emissioni di gas serra. Anche perché assumere che determinate tecnologie come il nucleare e il carbone saranno realmente a ‘costo zero’, come alcuni vogliono farci credere, non è affatto scontato”, ha detto il rappresentante del gruppo petrolifero.
Per Carlo Stagnaro, direttore del Dipartimento energia e ambiente dell’Istituto Bruno Leoni, “esiste un rapporto di stretta correlazione tra libertà economica e efficienza energetica: nei paesi dove l’impresa è libera e vigono le leggi del mercato e dell’innovazione, il risparmio di energia (e quindi il minor inquinamento) è una realtà. Al contrario, paesi poco liberi economicamente come Cina e India inquinano molto più, in proporzione, di Stati Uniti e Giappone. Dovremmo porre le basi per un ambientalismo che sia amico dell’impresa e della tecnologia, e non che tenda a demonizzarle”.
Alan Patarga

(© Il Foglio, 17 ottobre 2007)

martedì 16 ottobre 2007

Ricapitolando


Nuovo fuso orario, nuovo stato civile (dal 28 luglio, vedi foto), presente fogliante, futuro (sempre) incerto. Benritrovata, Italia.

lunedì 15 ottobre 2007

Ora tocca a voi


Bello o brutto che sia, il Partito democratico ora è un fatto. E ha un leader che, seppure per molti versi sfuggente e mellifluo, è sufficientemente credibile per essere temibile. Per completare la grande rivoluzione italiana, quella iniziata dal Cav. a gennaio '94 e perfezionata ieri da W., serve ora un nuovo sforzo nel centrodestra, un Partito dei moderati o un Partito delle Libertà in grado di semplificare il panorama politico italiano e renderlo finalmente civile. Basterebbe la fusione di Forza Italia e An, di fatto già avvenuta da anni tra gli elettori. Se è vero che il sistema proporzionale spagnolo potrebbe darci un quadro con Pdl e Pd in grado di spartirsi l'80-85 per cento dell'elettorato (salvando alcuni partiti radicati territorialmente come Lega, Udc e Udeur e spazzando via del tutto o quasi l'estrema sinistra e i gruppuscoli neofascisti), allora c'è una sola cosa da fare: sbrigarsi.

Lo strano tandem Draghi-Veltroni


Roma. “La sfida cruciale della finanza pubblica italiana consiste nel realizzare congiuntamente l’abbattimento del peso del debito e la riduzione del carico fiscale che grava sui contribuenti onesti”. Le parole scelte ieri da Mario Draghi, nel corso dell’audizione sulla Finanziaria delle commissioni Bilancio di Camera e Senato, per chiarire quale sia la priorità delle priorità per la politica economica dei prossimi anni, sono suonate terribilmente simili a quelle scelte da Walter Veltroni appena quarantott’ore prima. Lunedì, il candidato numero uno alla leadership del Partito democratico aveva lanciato la sua “cura choc” per la riduzione del debito pubblico italiano a base, soprattutto, di privatizzazioni del patrimonio demaniale. Martedì era stata la volta del commissario europeo agli Affari economici, Joaquin Almunia, che aveva chiesto all’Italia di “rispettare” i suoi impegni in vista della riduzione del debito pubblico, “il più alto d’Europa”. Ieri è intervenuto il governatore della Banca d’Italia, chiamato a pronunciarsi sulla bozza di legge finanziaria approntata dal governo: a suo avviso “mantiene le principali poste del bilancio pubblico sui livelli previsti per l’anno in corso, non sfrutta il favorevole andamento delle entrate per accelerare la riduzione del debito e non restituisce ai contribuenti una quota significativa degli aumenti di gettito”. Anzi, le tasse di fatto aumenteranno: “La struttura dell’Irpef si caratterizza per un elevato grado di progressività che, per effetto dell’inflazione, determina ogni anno un aumento del prelievo sulle famiglie superiore a quello della capacità contributiva”, ha spiegato Draghi, che è poi tornato sulla necessità di alzare l’età pensionabile. Più tardi, anche il presidente della Corte dei conti, Tullio Lazzaro, ha rilevato con “perplessità e preoccupazione” che la Finanziaria “è caratterizzata da una continua revisione verso l’alto delle stime sul gettito fiscale” e che il tesoretto potrebbe rivelarsi di soli 2,3 miliardi di euro (da 5,9).
A ben vedere, quella di ieri non è stata però la prima occasione di sintonia tra il governatore e il sindaco di Roma. Qualche settimana fa, Veltroni aveva chiesto l’adozione di un “nuovo patto fiscale” dove “a mutare deve essere la composizione interna della pressione fiscale, che oggi è sperequata a svantaggio dei contribuenti leali e a favore di quelli meno onesti”, parole molto simili a quelle usate ieri da Draghi. Che sia casuale o no, il fatto che – dalle considerazioni finali del governatore di Palazzo Koch al discorso del Lingotto di Veltroni fino a ieri – i temi, i tempi, le parole e in parte anche le ricette che i due propongono finiscano spesso per assomigliarsi è un dato singolare che potrebbe dire molto sulla Veltronomics prossima ventura.
Nel discorso-manifesto di Torino, da dove è partita la sua corsa per conquistare la guida del Pd, Veltroni era riuscito a non nominare nemmeno Antonio Gramsci ma a citare tre volte (più di qualunque altro) proprio Mario Draghi. E lo ha fatto parlando di invecchiamento della popolazione e di pensioni, ma anche di “questione meridionale”. Temi sui quali il governatore di Bankitalia è tornato nelle due prime occasioni pubbliche a disposizione dopo il discorso del Lingotto: il 16 luglio durante l’audizione parlamentare sul Dpef e il 12 settembre all’Università di Brescia, dove era chiamato a parlare in ricordo dell’economista Riccardo Faini. A Brescia, Draghi chiarì come non fosse possibile un’Italia ricca con un meridione in affanno perché “il paese non si riprende se il sud non decolla”. Pochi giorni più tardi, per la prima volta W. prendeva carta e penna per scrivere alla Gazzetta del Mezzogiorno (2 ottobre) e al Mattino (il 4) che “è il Mediterraneo il nuovo crocevia mondiale del secolo e il sud ne deve approfittare” e di essere “con il sud per rompere il silenzio” dell’omertà mafiosa.
Per l’economista Francesco Giavazzi, autore (con Alberto Alesina) di un recente saggio sul liberismo “di sinistra” edito da il Saggiatore, “un linguaggio comune tra i due c’è, ma con una differenza”: “Sicuramente Veltroni e Draghi sono più vicini di quanto quest’ultimo non lo sia con l’attuale ministro dell’Economia – spiega al Foglio il professore bocconiano – ma l’idea del sindaco di Roma di risolvere, sia pure parzialmente, il problema del debito pubblico con un’ampia opera di dismissioni del patrimonio dello stato non credo rientri nello spirito di Draghi. Quello di Veltroni è un approccio che può essere risolutivo per un comune anche grande come quello di Roma, non per l’Italia. Probabilmente ha preferito puntare su quello, anziché sulla necessità di ridurre drasticamente la spesa pubblica, per esigenze politiche, ma a mio avviso il leader in pectore del Partito democratico avrebbe dovuto essere più coraggioso. Se non lo è adesso, quando potrà esserlo?”. L’economista e deputato ulivista Nicola Rossi (candidato a Roma nella lista dei Democratici per Veltroni) sostiene che “certi punti di convergenza tra i due non sorprendono affatto, anzi erano tutto sommato attesi, anche tenendo conto delle posizioni che tanto il governatore di Bankitalia quanto il sindaco di Roma hanno da molto tempo, ormai, sulle questioni della politica di finanza pubblica. Conosco entrambi molto bene, ma non so dire se siano in contatto o no: non tengo il conto delle telefonate né di uno né dell’altro”.

(@ Il Foglio, 12 ottobre 2007)

Proviamo


Se tutto va per il meglio, Sciopenàuer trasloca.