giovedì 18 ottobre 2007

Anche i giornali liberal dicono che Petraeus sta vincendo in Iraq


"Missione compiuta”, titola un lungo reportage del magazine britannico Prospect, e l’articolo non è dedicato al Nobel per la pace di Al Gore, ma alla campagna americana in Iraq.
Per la rivista inglese, la questione morale non si pone nemmeno. “Secondo ogni standard etico – scrive Bartle Bull, autore dell’analisi – l’attuale progetto della coalizione in Iraq è di quelli giusti. La Gran Bretagna, l’America e gli altri alleati dell’Iraq sono lì come ospiti di un governo indicato con un forte mandato dagli elettori iracheni secondo i dettami di una Costituzione legittima. Le Nazioni Unite hanno approvato il ruolo della coalizione nel maggio del 2003 e da allora lo hanno rinnovato ogni anno, l’ultima volta lo scorso agosto. Allo stesso tempo, chi era o è nel campo avverso di questa guerra è annoverabile tra i peggiori personaggi della politica globale: i baathisti, ossia i nazisti del medio oriente; i fondamentalisti sunniti, ossia i principali oppositori del progresso nella lotta tutta islamica alla modernità; il governo dell’Iran”. L’analista di Prospect spiega con realismo che anche un intervento in Ruanda sarebbe stato giusto, ma che nello sventurato paese africano non c’erano ingenti riserve petrolifere. “L’Iraq non è il Ruanda – scrive – ma due o tre bombe al giorno non fanno nemmeno un Vietnam”. E che non è un Vietnam, l’Iraq di oggi, lo dimostrano i fatti: “A tre anni e mezzo dall’inizio della guerriglia – racconta Bull – la maggior parte delle grandi domande irachene ha avuto una risposta tendenzialmente positiva. Il paese è unito. E’ andato alle elezioni. Ha dato vita a una Costituzione equa e popolare. Ha evitato la guerra civile. Non è caduto in mano all’Iran. Ha messo fine al genocidio curdo e all’apartheid per gli sciiti. Ha scongiurato la vendetta di massa contro i sunniti”.
Insomma, “la missione in Iraq può dirsi più o meno compiuta, seppure sia stata imperfetta e costosa”. La violenza esiste ancora, sebbene in calo, “ma è soprattutto circoscritta a livello locale e di stampo criminale. Il fatto più importante dell’Iraq di oggi è che la violenza, per quanto tragica, ha smesso di avere una matrice politica e non è più importante com’era in precedenza”. Bull racconta di come le violenze sunnite siano in larga parte cessate: i baathisti trattano “per entrare nella tenda con americani e sciiti”, le tribù della provincia di Anbar si sono alleate con le truppe della coalizione “e pacificare il cuore della guerriglia sunnita era considerato un obiettivo irraggiungibile non più tardi della scorsa primavera”. Soltanto i fondamentalisti wahhabiti, per lo più stranieri, “continuano a passare il confine per farsi saltare in aria in cerca delle 72 vergini del paradiso”. Nemmeno la guerra civile di cui tanto si parla c’è mai stata: “Nessuna linea del fronte, nessuna secessione, nessun tentativo di conquista del potere o di imporre cambi costituzionali, nessun governo parallelo, nemmeno un leader disposto ad andare in pubblico (…). La dimostrazione più eclatante l’ha data il tentativo, l’estate scorsa, dell’ufficio del premier al Maliki di richiamare in servizio gli ex soldati e ufficiali dell’epoca baathista: hanno risposto in 48.600. Maliki ne ha presi cinquemila, ha dato lavoro nella pubblica amministrazione ad altri settemila e agli altri ha concesso la pensione”. E il cessate il fuoco proclamato lo scorso agosto dall’Esercito del Mahdi di Moqtada al Sadr “in realtà era in vigore dal 2004”, dopo la battaglia di Najaf.
La voce di Prospect (che si aggiunge a quelle del New York Times e del Washington Post dell’estate scorsa, e soprattutto ai dati portati al Congresso a metà settembre dal generale David Petraeus e dall’ambasciatore americano a Baghdad, Ryan Crocker) non è isolata, in questi giorni. Proprio ieri, anche l’ultraliberal Los Angeles Times, in una corrispondenza da Baghdad firmata da Christian Berthelsen, ha riconosciuto come alle minacce dei qaidisti d’Iraq sulle stragi durante il mese di Ramadan non siano seguiti i fatti. “Il numero di attacchi durante le quattro settimane del mese sacro – si legge nel resoconto – è stato di gran lunga inferiore a quello dell’anno scorso”. I colpi ci sono stati, e uno anche importante: “L’uccisione dello sceicco Abdul Sattar Abu Risha, alleato chiave degli americani contro al Qaida nella provincia di al Anbar. Oppure le 25 vittime di un’autobomba a un vertice per la riconciliazione tra sunniti e sciiti a Diyala, lo scorso 24 settembre. Ma nel complesso le violenze sono diminuite del 40 per cento rispetto al Ramadan del 2006 e le vittime americane si sono dimezzate a quota 49, un minimo storico se accostato alle 98 dell’anno scorso, alle 93 di quello precedente, alle 104 del 2004 e alle 88 del 2003”. Il proclama dello Stato islamico d’Iraq, uno dei gruppi più attivi della guerriglia sunnita, è stato smentito dai fatti. E non è soltanto in negativo (dal minor numero di vittime militari e civili) che si può registrare il successo del “surge” dei generali Petraeus e Odierno. Nelle ultime settimane sono stati parecchi, in Iraq e non soltanto, i sospetti terroristi catturati dagli americani e dai loro alleati. L’ultimo è stato Jamal Badawi, leader qaidista yemenita, fermato dalla polizia del suo paese pochi giorni fa e considerato responsabile, nel 2000, dell’attacco alla nave USS Cole nel porto di Aden.
Persino il settimanale tedesco Spiegel, che aveva brillato per pacifismo, ha parlato recentemente di un Iraq pacificato e di un’America vittoriosa. Anzi, le parole dell’inviato Ullrich Fichtner sono quelle che, meglio di qualunque altra, illustrano la situazione: “Da giugno, la gente di Ramadi ha visto la guerra soltanto in tv. E i comandanti americani dell’Operazione Iraqi Freedom, a Baghdad, non credevano ai loro occhi, leggendo i rapporti redatti dalle unità locali. Autobomba esplose: zero. Mine scoppiate: zero. Razzi sparati: zero. Granate lanciate: zero. Colpi d’arma da fuoco: zero. Depositi di armi scoperti: decine. Terroristi arrestati: tanti”.
Alan Patarga

(© Il Foglio, 18 ottobre 2007)

1 commento:

Frango ha detto...

Mi fa piacere che una speranza allora c'è... sotto sotto non avevo mai smesso di crederci