martedì 18 dicembre 2007

Così Bush ha vinto la battaglia di Bali


A Baghdad c’è voluto il “surge” dei generali David Petraeus e Ray Odierno per far capire anche ai più critici quanto la vittoria in Iraq fosse a portata di mano. A Bali è bastato mandare Paula Dobriansky e James Connaughton per scompaginare i piani del fronte ambientalista delle catastrofi e far trionfare la strategia verde della Casa Bianca. Checché ne dicano i principali media americani (e con loro, il grosso della stampa mondiale), l’unico vincitore uscito dalla Conferenza delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico che si è tenuta nell’isola indonesiana è George W. Bush.
La vulgata dice che gli ambientalisti più accesi e i governi loro amici sono riusciti nella non facile impresa di far capitolare l’Amministrazione statunitense di fronte all’ipotesi dell’isolamento in tema di ecologia. Washington, hanno spiegato gli analisti della Cnn e quelli del New York Times e dell’Associated Press, ha dovuto cedere, dopo tanti “no”, e siglare un accordo che prevede “forti riduzioni” nelle emissioni di gas serra in un prossimo futuro. La cronaca nuda degli avvenimenti, così come l’ha raccontata domenica il Sunday Times, racconta esattamente il contrario: “Sebbene i principali paesi industrializzati, e tra essi l’America, abbiano acconsentito a un taglio delle loro emissioni di gas serra – ha scritto il giornale britannico – essi si sono rifiutati di approvare la proposta avanzata dall’Unione europea che prevedeva come obiettivo un taglio del 25-40 per cento delle emissioni entro il 2020. Gli attivisti ora si lamentano del fatto che alcuni tra i principali inquinatori del mondo, come l’America, il Giappone o il Canada, potranno continuare liberamente ad aumentare la loro quota di emissioni per anni e anni”. Non a caso Meena Rahman, presidente di Friends of the Earth, ha parlato di “un compromesso debole e al ribasso”, mentre un altro ambientalista, Tony Juniper, sosteneva che “questa conferenza ha fallito l’obiettivo di fissare una direzione di marcia chiara”.
L’idea di Washington messa all’angolo e dell’Europa goriana che trionfa non traspare dal resoconto del Sunday Times. Prima ancora che l’intesa fosse siglata, l’ex ambasciatore americano all’Onu, John Bolton, aveva già spiegato in un’intervista alla Fox che “delle democrazie industrializzate del G8 ben quattro, ossia Stati Uniti, Giappone, Canada e Russia, condividono il nostro punto di vista, e cioè che non servano obiettivi numerici in questo accordo. Gli altri quattro, ovvero gli europei, sono invece in disaccordo con noi. Quindi, all’interno del G8, siamo quattro a quattro, in perfetta parità. Andando a vedere anche le opinioni dei paesi in via di sviluppo come Brasile, India e Cina, però, si scopre che anche questi ultimi sono in linea con le nostre posizioni. Se c’è qualcuno che è isolato, qui, direi che si tratta degli europei e di Al Gore, non dell’America”. L’epilogo della conferenza di Bali dice che Bolton aveva visto giusto.
I delegati statunitensi non hanno cambiato idea. Al contrario, venerdì sera sono stati i rappresentanti dell’Unione europea a cancellare ogni riferimento numerico (quel 25-40 per cento di emissioni da ridurre entro il 2020) dalla loro mozione, accontentandosi di un “profondo ridimensionamento” delle emissioni di gas serra “per raggiungere l’obiettivo finale”. Di date, nemmeno l’ombra, così come di percentuali. “Questo è un inizio e non una fine”, ha detto concludendo i lavori della conferenza il segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon. Ma avrebbe potuto definirlo “l’inizio di un inizio”, perché in realtà il compromesso “accettato” dagli Stati Uniti e dagli altri 180 paesi firmatari non prevede altro che un lungo negoziato senza riferimenti certi se non la data di scadenza: il 2009, quando si terrà una nuova conferenza internazionale a Copenaghen. Fino ad allora, insomma, non cambierà nulla di nulla. Si continuerà, con toni assai simili a quelli della settimana scorsa, a discutere di catastrofi imminenti e di nazioni che inquinano più di altre, di sviluppo economico da proteggere e di natura da tutelare dalla perfidia umana. Ma saranno parole.
Fin qui i successi americani in negativo, quelli ottenuti, cioè, rinviando decisioni potenzialmente dannose per lo sviluppo economico statunitense e mondiale, che era poi il principale proposito dell’Amministrazione Bush. Ma la Casa Bianca è riuscita a fare di più, grazie ai suoi rappresentanti: è riuscita a far cadere quello che Yvo de Boer, segretario della Convenzione sui cambiamenti climatici dell’Onu e organizzatore della conferenza di Bali, aveva definito “il muro di Berlino del cambiamento climatico”, e cioè il principio secondo il quale l’onere di combattere l’inquinamento globale e le sue conseguenze avrebbe dovuto essere assunto dalle sole nazioni sviluppate e non anche, come chiesto da dieci anni dagli Stati Uniti, dai paesi in via di sviluppo. Paula Dobriansky, sottosegretario di Bush alla Democrazia e agli Affari globali, ha spiegato proprio al Sunday Times di aver “cambiato idea” sull’intesa di Bali “quando il Brasile e il Sud Africa hanno lasciato intendere di essere disponibili a partecipare attivamente ai tagli delle emissioni”. L’idea che tutti i paesi, e non soltanto quelli ricchi, debbano accollarsi l’onere di “salvare la Terra”, ha cambiato completamente il quadro delle trattative. Era stato proprio nel timore di squilibri nella crescita economica mondiale (a detrimento degli interessi americani) che il Senato degli Stati Uniti aveva approvato la “risoluzione Byrd-Hagel” con 95 voti favorevoli e zero contrari. Era il 1997, primo anno del secondo mandato presidenziale di Bill Clinton, e i senatori di entrambi i partiti decisero di sbarrare la strada alla ratifica del Protocollo di Kyoto fino a quando anche i paesi in via di sviluppo non avessero accettato di contribuire alla riduzione dell’inquinamento globale. Nonostante gli sforzi dell’Amministrazione democratica e la firma simbolica del vicepresidente Gore in calce al Protocollo, non se ne fece nulla. Dove Clinton e il suo delfino fallirono dieci anni fa, Bush è riuscito lo scorso weekend, appena due giorni dopo l’accusa – lanciata a Bali in mondovisione dall’ex rivale Gore – di essere “il peggior inquinatore del globo”. Al termine del negoziato l’olandese De Boer è scoppiato in lacrime.
In realtà, paesi industrializzati e nazioni in via di sviluppo non avranno le stesse identiche responsabilità. L’intesa raggiunta a Bali prevede infatti parametri precisi per ciascuno degli stati più economicamente avanzati del pianeta e limiti alle emissioni di biossido di carbonio più “indicativi” per i paesi come Cina e India. Ma la vittoria bushiana è proprio nell’aver rotto lo schema per il quale ai poveri non era chiesto nulla se non di continuare ad arricchirsi senza dover rispettare alcuna regola mentre ai paesi sviluppati si chiedeva di fare sacrifici per tutti. Esattamente l’opposto di quanto ipotizzato, per una settimana intera, dai gruppi ecologisti più oltranzisti, come il Mauch Consulting Group che aveva prospettato l’imposizione di una “tassa globale sulla CO2” da far pagare alle sole nazioni industrializzate per il principio “paghino soprattutto gli inquinatori”, dimenticando che la Cina ha recentemente superato gli Stati Uniti nella classifica mondiale della produzione di gas serra. Un altro gruppo ambientalista come Friends of the Earth, con linguaggio mutuato dall’ortodossia marxista, aveva proposto un trasferimento di fondi dai paesi ricchi a quelli poveri perché “la risposta al cambiamento climatico deve basarsi essenzialmente sulla redistribuzione delle ricchezze e delle risorse”. Un assunto che fa il paio con le dichiarazioni di Mayer Hillman, ricercatore britannico del Policy Studies Institute, secondo il quale il razionamento del carbonio è l’unico metodo efficace per impedire gli effetti catastrofici del climate change, anche contro il parere dei cittadini: “Io credo che la democrazia sia un obiettivo meno importante della protezione del nostro pianeta. I cittadini devono essere costretti al razionamento, che piaccia o no”, ha spiegato lo studioso. Nel suo blog ospitato sul sito della National Review, l’editorialista Mark Steyn ha dato un titolo emblematico a questo breve stralcio di intervista: “The Earth is your Führer”, la Terra è il tuo Führer. Anche da questa dittatura, per almeno due anni, Bush è riuscito a liberarci.
Alan Patarga

(© Il Foglio, 18 dicembre 2007)

domenica 16 dicembre 2007

Il più grande centravanti di tutti i tempi


Un solo rimpianto, non poterlo vedere mai alla Roma in coppia col Capitano.

venerdì 14 dicembre 2007

Cose d'altri tempi


Ho visto su YouTube qualche spezzone della reunion dei Led Zeppelin a Londra. E' una delle cose più belle della storia della musica (con la reunion dei Pink Floyd).

mercoledì 12 dicembre 2007

Quant'è bella l'Autosole senza Tir (forse)


Martedì, ore 18,30 circa. Mi avvicino al casello di Mantova nord (Autobrennero) con le palpitazioni: quanti Tir incontreremo lungo la strada fino a Sinalunga? Le immagini dei tg, i titoli dei quotidiani di giornata lasciano poco spazio al dubbio: tanti, ne incontreremo tanti. Code interminabili di "bisonti" lungo le carreggiate, caselli bloccati, aree di servizio inservibili, traffico canalizzato (e paralizzato) lungo un'unica, risicatissima corsia di sorpasso. Questo ci aspettiamo, io, mia moglie e forse persino il cane. Perché il messaggio dei media era chiaro: l'Italia è nel caos, manca tutto. E noi dobbiamo attraversarlo quasi tutto, quel caos, passare per Bologna e Firenze, mica per Pescasseroli e Roccasecca. Vedrai che file ci saranno, vedrai.
Così ritiro il biglietto a Mantova nord, saranno le 18,38 o giù di lì. Faccio due conti: col traffico che ci sarà, se tutto va bene per ora di cena siamo a Rioveggio. Che, tradotto, significa una mezza salvezza: in quel paesino dell'appennino tra Bologna e Firenze, conosciuto più per il casello che per altro, c'è una delle pizzerie più buone d'Italia, sarà a un chilometro dall'uscita dell'A1, fa una pizza speciale (abbastanza alta ma non troppo, ingredienti eccellenti) e costa non il giusto, qualcosa meno. Te la do io, la Rustichella, penso.
In autostrada c'è nebbia. Sarà per questo che non si vede nemmeno un Tir nei paraggi, Stai a vedere che spuntano due fanali rossi a pochi metri quando meno te l'aspetti, meglio stare attenti. Passano i chilometri, e le due lucine rosse non si vedono. Passiamo Mantova sud, Pegognaga, Reggiolo, Carpi. Fino a Modena nord, quando c'è l'imbocco dell'Autosole (bel nome, se per metà è inghiottita nelle nebbie padane), di camion ne avremo visti tre o quattro, tutti stranieri (uno croato, uno ceco e un paio polacchi): il traffico, se così si può chiamare, è scorrevole. Anzi, proprio non c'è: qualche automobile che procede a velocità moderata per la foschia, qualcun altro che sfreccia per far vedere agli altri che lui, alla nebbia, c'è abituato. Fanno tutti così, quelli che s'ammazzano. Da Modena in poi la musica rimane la stessa: pochissimi autotreni, roba che forse – da queste parti – non ne passavano così pochi nemmeno nel 1959, quando l'autostrada era in costruzione. Negli autogrill, a giudicare dall'occhiata rapida che diamo loro passando da fuori, sembra tutto tranquillo. Siamo a Bologna, sono passate le sette e io comincio a sperare nell'ingorgo, perché sennò Rioveggio salta e si finisce a casa a mangiare due uova sode e un po' di insalata. Dopo un trasloco sarebbe troppo. A Rioveggio ci passiamo che saranno le 19,25 e l'ora sarebbe anche quella giusta, ma con un traffico (?) così perché sprecare soldi fuori se possiamo essere a casa in poco più di un'ora e mezza? Basta stringere la cinghia un po', quante volte s'è fatto per gli orari del giornale?
E sia, niente Rioveggio. DI Tir, nemmeno l'ombra. A questo punto prego che non compaiano proprio ora, che non colpisca la maledizione della Rustichella. Sarebbe davvero il colmo. Siccome lassù qualcuno deve amarmi almeno un po', dopo Bologna anche Firenze si presenta insolitamente vuota di traffico: persino i lavori tra Calenzano e Certosa non sono d'ostacolo, senza i bisonti in rivolta chissà dove. Certo non qui. Tra Incisa e Arezzo torna la nebbia, "chissà perché da qualche anno c'è quasi più nebbia dalle nostre (sue, ndr) parti che in Valpadana", si chiede Elisa. Alle 21 circa usciamo a Valdichiana-Bettolle-Sinalunga. Eccoli, i camionisti. Pardon, i padroncini. Sono fuori dal casello attorno a un falò, si riscaldano con qualche salsiccia, due castagne e un goccio di vin brulè. Non sarebbe male. A me, tra qualche minuto, toccheranno uova sode e insalata.

giovedì 29 novembre 2007

Telchì il governo Ppl-Lega


Presidente: Silvio Berlusconi
Vicepresidente: Umberto Bossi
Finanze: Giulio Tremonti
Tesoro: Antonio Martino
Bilancio: Benedetto Della Vedova
Attività Produttive: Michela Vittoria Brambilla
Infrastrutture: Daniele Capezzone
Interno: Roberto Formigoni
Esteri: Franco Frattini
Difesa: Roberto Maroni
Giustizia: Carlo Giovanardi
Cultura: Giuliano Ferrara
Istruzione: Marcello Dell'Utri
Ambiente e agricoltura: Guido Bertolaso
Sanità: Stefania Prestigiacomo
Comunicazioni: Roberto Castelli
Welfare: Daniela Santanchè
Rapporti col Parlamento: Gianfranco Rotondi.

Vantaggi: un tagliatore di tasse vero (senza An e Udc lo sarebbe già stato) alle Finanze, liberisti puri negli altri dicasteri economici. Personalità esterne al circolo ristretto berlusconiano per Comunicazioni e Giustizia, parecchi giovani e buona presenza di donne. Pochi ministri, un ottimo tecnico (Bertolaso).

martedì 23 ottobre 2007

Fa freddo, ma è la fine di ottobre non del mondo. E succede da dieci anni


Roma. Che faccia freddo è un fatto. Che faccia caldo, una teoria. Eppure, a leggere le cronache e a sentire parecchi notiziari meteorologici, l’arrivo di un’ondata di gelo sull’Italia sembrerebbe la riprova – nientemeno – che delle catastrofiche previsioni dei sostenitori del global warming. Che la contraddizione sia nei termini stessi del problema, lo dicono i dati climatici degli ultimi anni. Il blocco di bassa pressione che si è formato sulla Scandinavia ha richiamato aria molto fredda di origine artica verso sud, fino a toccare l’Italia, e in particolare la costa adriatica e le regioni meridionali. Come spiegava il 15 ottobre Andrea Meloni, esperto di MeteoGiornale.it, un sito Internet italiano dedicato esclusivamente all’analisi dei fenomeni atmosferici, “nel semestre freddo, quando in Europa il flusso di venti atlantici è assente, sovente si realizza un’area di bassa pressione in Scandinavia (...) è un’evoluzione che abbiamo vissuto parecchie volte negli ultimi anni, specialmente in novembre”, ma che non è poi così rara nemmeno in ottobre. E’ sufficiente leggere gli annuari meteorologici degli ultimi anni per trovare conferma: il servizio meteorologico online ricordava come fenomeni simili si fossero registrati nell’ultima decade di ottobre nel 1997, nel ’98, nel ’99, nel 2002 e nel 2003. “Al contrario, alla fine di ottobre del 2004 si registrò un’ondata di caldo estivo al sud e in Sicilia”, quella sì fuori stagione. “Seppur estreme, le linee di tendenza climatica per le prossime due settimane di ottobre indicano condizioni già vedute nel passato”, concludeva l’esperto di MeteoGiornale.it. Le previsioni (incluse le nevicate a bassa quota e la bora a Trieste) si sono rivelate esatte al millesimo, motivo in più per credere alle parole dell’esperto. E’ lo stesso esperto che, il 12 ottobre scorso, rilevava come “di questo ottobre non si può di certo dire che sia caldo: le temperature sono generalmente prossime alle medie (...) La scorsa estate ha veduto tantissima pioggia nei paesi dell’Europa nordoccidentale, come non accadeva da decenni, con l’aggiunta che è stata una stagione straordinariamente fresca”. E proseguiva dicendo che “quel che inizia a far notizia, e di cui sempre più spesso parleremo, è il freddo precoce, persino violento, che potrebbe, così prospettano i modelli matematici, investire a più riprese il nord dell’Europa e pesantemente il suo est, con imponenti ondate di gelo” in grado di lambire anche il Mediterraneo e l’Italia, fino a pochi giorni fa ancora inaspettatamente (e tardivamente) temperati.
Così, se può sembrare verosimile che non ci siano più le mezze stagioni (luogo comune vecchio almeno quanto quello per cui “sono sempre i migliori quelli che se ne vanno”), meno verosimili sembrano gli allarmi di quegli scienziati che parlano di “tempo pazzo” (ma non era marzo?), come ha fatto ieri – a un congresso di meteorologi a Vienna – il climatologo Giampiero Maracchi, direttore dell’Istituto di Biometeorologia del Cnr di Firenze: “Gli anticicloni delle Azzorre e della Siberia – spiegava – che portavano l’estate e l’inverno, si stanno modificando e il risultato è un tempo pazzo. Il fatto è preoccupante, perché le variazioni si avvertono di più”. Eppure i dati dicono che quel che sta accadendo in questi giorni è accaduto – 2004 a parte – più o meno tutti gli anni. Da un decennio, cioè, l’inverno arriva in anticipo (e d’estate fa molto caldo soltanto per pochi giorni, soprattutto in giugno). Non fosse che nessuno (o quasi) ci crede, sarebbero da prendere per buone le teorie del professore canadese Timothy Patterson, direttore del Geoscience Centre della Ottawa-Carleton University, secondo il quale “è il global cooling, non il global warming, il maggior pericolo per il clima mondiale, la cui unica costante nella storia della Terra è che cambia di continuo”.
Alan Patarga

(© Il Foglio, 23 ottobre 2007)

sabato 20 ottobre 2007

Giorni contati


Silvio, pensaci tu ad avverare la profezia...

venerdì 19 ottobre 2007

Il NYT e l'ombra di Murdoch

Roma. Gli azionisti di minoranza che vendono in blocco, il titolo che crolla, la possibilità del delisting e l’ombra di Rupert Murdoch. Per Arthur Ochs Sulzberger jr., detto “Pinch” (suo padre, Arthur senior, era soprannominato “Punch”), dal 1992 a capo della New York Times Company, non è stata una bella settimana. Mercoledì mattina un lancio dell’agenzia Bloomberg ha reso noto quello che ai vertici della holding che pubblica il New York Times e il Boston Globe temevano da tempo: l’uscita di scena di Morgan Stanley Investment Management, il fondo che – con il suo 7,2 per cento del capitale – era il secondo investitore istituzionale della compagnia e il principale antagonista della famiglia Sulzberger tra i soci. L’uscita di Morgan Stanley preoccupa i Sulzberger perché temono l’arrivo di azionisti ancora più ostili.
Morgan Stanley era entrata nel gruppo NYT nel 1996, ma era soltanto da due anni che lo spregiudicato direttore del fondo d’investimento della banca americana, Hassan Elmasry, aveva deciso di muovere una sua personalissima guerra a una delle dinastie più longeve dell’editoria statunitense. La sua battaglia si è apparentemente conclusa mercoledì mattina con la decisione di vendere (l’acquirente è rimasto finora sconosciuto) i dieci milioni di azioni in mano a Morgan Stanley, un patrimonio in titoli valutato circa 183 milioni di dollari.
Elmasry aveva a lungo tentato di convincere la famiglia Sulzberger, sostenuto in questa operazione da numerosi azionisti di minoranza, a rinunciare al sistema di voto che permette loro, con azioni pesanti di “classe B”, di controllare nove membri del board su tredici pur non detenendo più da tempo il pacchetto di maggioranza della holding.
In due anni di contestazioni pubbliche delle scelte aziendali (come la vendita di alcune emittenti televisive di proprietà del gruppo per ripianare il deficit o la decisione di acquistare il portale di inserzioni About.com), Elmasry era riuscito a portare sulle sue posizioni, la scorsa primavera, il 42 per cento degli azionisti. Tanti, tenuto conto che nel 2006 la quota degli scontenti era ancora ferma al 30 per cento. Ma, evidentemente, non abbastanza per garantire alla cordata organizzata da Morgan Stanley un possibile controllo del gruppo.
Alle prime indiscrezioni sulla vendita, Wall Street ha reagito male, facendo crollare il titolo della New York Times Co. di oltre il 3 per cento, fino a 18,29 dollari, minimo storico dal dicembre 1996. Nel 2002 la quotazione aveva toccato i 53 dollari per azione. Ciononostante, secondo Edward Atorino, analista di Benchmark Company, “Arthur Sulzberger non perderà il sonno”. Non tutti la pensano come lui, a Wall Street. Il pericolo che l’azione di disturbo di Elmasry potesse andare a buon fine era reale. Un esempio concreto era l’assalto, riuscito, di Rupert Murdoch alla Dow Jones Corp., proprietaria del Wall Street Journal. Vero è che il magnate australiano era riuscito nell’impresa grazie alle divisioni interne alla famiglia Bancroft, ma lo stesso finanziere di origini egiziane avrebbe potuto tentare – alla lunga – un’opzione simile. Un pericolo che Pinch Sulzberger non sembra intenzionato a correre ancora, anche in considerazione del fatto che l’altro socio ribelle, T. Rowe Price (che possiede il 14 per cento delle azioni di “classe A”) è ancora lì, pronto a riprendere la battaglia. Così, la soluzione migliore per garantire il controllo del gruppo alla famiglia Ochs-Sulzberger potrebbe essere il delisting, l’uscita dalla Borsa. Secondo Porter Bibb, dirigente di Mediatech Capital Partners ed ex di New York Times Co., dopo Elmasry “potrebbe esserci un esodo di azionisti istituzionali. A quel punto i Sulzberger dovranno sedersi intorno a un tavolo e decidere se non sia arrivato il momento di tornare una private company”.
Abbandonare Wall Street sarebbe un modo anche per allontanare l’ombra dello stesso Murdoch (già proprietario del tabloid New York Post e della Fox) che, dopo aver conquistato il Wall Street Journal, potrebbe puntare al glorioso Times. La proposta di legge sulle concentrazioni editoriali che renderebbe compatibile la proprietà di giornali e tv nella stessa città, presentata in questi giorni, glielo consentirebbe.
Alan Patarga

(© Il Foglio, 19 ottobre 2007)

giovedì 18 ottobre 2007

Quella volta che io, Christian Rocca e Tom Wolfe...


Oggi nel paginone centrale del Foglio ci sono tre articoli: uno del sottoscritto sui successi del "surge" iracheno del generale Petraeus (vedi sotto), uno del maestro Christian Rocca sul patriottismo di Hollywood e uno imperdibile di Tom Wolfe sull'Idea Americana. Andate subito a comprare il giornale.

Anche i giornali liberal dicono che Petraeus sta vincendo in Iraq


"Missione compiuta”, titola un lungo reportage del magazine britannico Prospect, e l’articolo non è dedicato al Nobel per la pace di Al Gore, ma alla campagna americana in Iraq.
Per la rivista inglese, la questione morale non si pone nemmeno. “Secondo ogni standard etico – scrive Bartle Bull, autore dell’analisi – l’attuale progetto della coalizione in Iraq è di quelli giusti. La Gran Bretagna, l’America e gli altri alleati dell’Iraq sono lì come ospiti di un governo indicato con un forte mandato dagli elettori iracheni secondo i dettami di una Costituzione legittima. Le Nazioni Unite hanno approvato il ruolo della coalizione nel maggio del 2003 e da allora lo hanno rinnovato ogni anno, l’ultima volta lo scorso agosto. Allo stesso tempo, chi era o è nel campo avverso di questa guerra è annoverabile tra i peggiori personaggi della politica globale: i baathisti, ossia i nazisti del medio oriente; i fondamentalisti sunniti, ossia i principali oppositori del progresso nella lotta tutta islamica alla modernità; il governo dell’Iran”. L’analista di Prospect spiega con realismo che anche un intervento in Ruanda sarebbe stato giusto, ma che nello sventurato paese africano non c’erano ingenti riserve petrolifere. “L’Iraq non è il Ruanda – scrive – ma due o tre bombe al giorno non fanno nemmeno un Vietnam”. E che non è un Vietnam, l’Iraq di oggi, lo dimostrano i fatti: “A tre anni e mezzo dall’inizio della guerriglia – racconta Bull – la maggior parte delle grandi domande irachene ha avuto una risposta tendenzialmente positiva. Il paese è unito. E’ andato alle elezioni. Ha dato vita a una Costituzione equa e popolare. Ha evitato la guerra civile. Non è caduto in mano all’Iran. Ha messo fine al genocidio curdo e all’apartheid per gli sciiti. Ha scongiurato la vendetta di massa contro i sunniti”.
Insomma, “la missione in Iraq può dirsi più o meno compiuta, seppure sia stata imperfetta e costosa”. La violenza esiste ancora, sebbene in calo, “ma è soprattutto circoscritta a livello locale e di stampo criminale. Il fatto più importante dell’Iraq di oggi è che la violenza, per quanto tragica, ha smesso di avere una matrice politica e non è più importante com’era in precedenza”. Bull racconta di come le violenze sunnite siano in larga parte cessate: i baathisti trattano “per entrare nella tenda con americani e sciiti”, le tribù della provincia di Anbar si sono alleate con le truppe della coalizione “e pacificare il cuore della guerriglia sunnita era considerato un obiettivo irraggiungibile non più tardi della scorsa primavera”. Soltanto i fondamentalisti wahhabiti, per lo più stranieri, “continuano a passare il confine per farsi saltare in aria in cerca delle 72 vergini del paradiso”. Nemmeno la guerra civile di cui tanto si parla c’è mai stata: “Nessuna linea del fronte, nessuna secessione, nessun tentativo di conquista del potere o di imporre cambi costituzionali, nessun governo parallelo, nemmeno un leader disposto ad andare in pubblico (…). La dimostrazione più eclatante l’ha data il tentativo, l’estate scorsa, dell’ufficio del premier al Maliki di richiamare in servizio gli ex soldati e ufficiali dell’epoca baathista: hanno risposto in 48.600. Maliki ne ha presi cinquemila, ha dato lavoro nella pubblica amministrazione ad altri settemila e agli altri ha concesso la pensione”. E il cessate il fuoco proclamato lo scorso agosto dall’Esercito del Mahdi di Moqtada al Sadr “in realtà era in vigore dal 2004”, dopo la battaglia di Najaf.
La voce di Prospect (che si aggiunge a quelle del New York Times e del Washington Post dell’estate scorsa, e soprattutto ai dati portati al Congresso a metà settembre dal generale David Petraeus e dall’ambasciatore americano a Baghdad, Ryan Crocker) non è isolata, in questi giorni. Proprio ieri, anche l’ultraliberal Los Angeles Times, in una corrispondenza da Baghdad firmata da Christian Berthelsen, ha riconosciuto come alle minacce dei qaidisti d’Iraq sulle stragi durante il mese di Ramadan non siano seguiti i fatti. “Il numero di attacchi durante le quattro settimane del mese sacro – si legge nel resoconto – è stato di gran lunga inferiore a quello dell’anno scorso”. I colpi ci sono stati, e uno anche importante: “L’uccisione dello sceicco Abdul Sattar Abu Risha, alleato chiave degli americani contro al Qaida nella provincia di al Anbar. Oppure le 25 vittime di un’autobomba a un vertice per la riconciliazione tra sunniti e sciiti a Diyala, lo scorso 24 settembre. Ma nel complesso le violenze sono diminuite del 40 per cento rispetto al Ramadan del 2006 e le vittime americane si sono dimezzate a quota 49, un minimo storico se accostato alle 98 dell’anno scorso, alle 93 di quello precedente, alle 104 del 2004 e alle 88 del 2003”. Il proclama dello Stato islamico d’Iraq, uno dei gruppi più attivi della guerriglia sunnita, è stato smentito dai fatti. E non è soltanto in negativo (dal minor numero di vittime militari e civili) che si può registrare il successo del “surge” dei generali Petraeus e Odierno. Nelle ultime settimane sono stati parecchi, in Iraq e non soltanto, i sospetti terroristi catturati dagli americani e dai loro alleati. L’ultimo è stato Jamal Badawi, leader qaidista yemenita, fermato dalla polizia del suo paese pochi giorni fa e considerato responsabile, nel 2000, dell’attacco alla nave USS Cole nel porto di Aden.
Persino il settimanale tedesco Spiegel, che aveva brillato per pacifismo, ha parlato recentemente di un Iraq pacificato e di un’America vittoriosa. Anzi, le parole dell’inviato Ullrich Fichtner sono quelle che, meglio di qualunque altra, illustrano la situazione: “Da giugno, la gente di Ramadi ha visto la guerra soltanto in tv. E i comandanti americani dell’Operazione Iraqi Freedom, a Baghdad, non credevano ai loro occhi, leggendo i rapporti redatti dalle unità locali. Autobomba esplose: zero. Mine scoppiate: zero. Razzi sparati: zero. Granate lanciate: zero. Colpi d’arma da fuoco: zero. Depositi di armi scoperti: decine. Terroristi arrestati: tanti”.
Alan Patarga

(© Il Foglio, 18 ottobre 2007)

mercoledì 17 ottobre 2007

Per Franco Prodi l’unica certezza sul climate change è che il clima cambia


Roma. Dice di non essere “un negazionista” del global warming, Franco Prodi, “ma nemmeno un catastrofista pronto a dire che la Terra scomparirà, perché ci sono troppe cose che ancora non sappiamo del nostro clima e delle sue variabili”. Intervenuto a un dibattito sul tema “Climate change: miti e falsi miti tra informazione e disinformazione” organizzato ieri alla Luiss, il direttore dell’Istituto di Scienze dell’atmosfera e del clima del Cnr (e fratello del premier Romano) che lo scorso mese aveva bocciato la conferenza sul clima organizzata dal governo ha ridimensionato il ruolo dell’uomo nel processo di surriscaldamento terrestre. “I fattori che hanno portato a un graduale innalzamento delle temperature – ha spiegato il ricercatore bolognese – sono numerosi, e molti non hanno nulla a che vedere con l’attività umana. La variabilità dei cicli solari, ad esempio, incide sul clima e sulle temperature, e questo è vero per periodi lunghi centinaia di migliaia di anni, ma anche per sottoperiodi più brevi. Anche nell’ultimo millennio abbiamo assistito a mutamenti climatici dovuti a questi cicli. Poi, negli ultimi duecento anni, abbiamo avuto la ‘complicazione’ dell’uomo industriale, questo è vero, ma per l’appunto non è semplice stabilire quale sia in realtà ‘l’effetto antropico’ sul clima, perché le serie storiche esistenti, rese possibili dall’invenzione del termometro e di altre apparecchiature come il barometro, risalgono a poco più di due secoli fa, a Galileo e a Torricelli”. E a chi – proprio alla conferenza governativa sul clima di settembre – aveva citato dati secondo i quali in Italia le temperature medie sarebbero cresciute quattro volte di più che nel resto del mondo, Prodi ha risposto indirettamente (dopo averlo fatto a caldo negli stessi giorni dell’evento), mostrando e spiegando le cifre reali: “Nell’ultimo secolo – ha raccontato – le temperature sono cresciute di circa sette decimi di grado. In Italia l’aumento registrato è stato di un grado ogni cento anni, ma non è vero che da noi abbia fatto più caldo, in proporzione, che altrove: semplicemente la media mondiale tiene conto anche delle superfici degli oceani, sulle quali non vengono effettuati rilievi termici, non essendoci stazioni di rilevamento. Facendo una media delle sole terre emerse, scopriremmo che l’incremento italiano è uguale a quello di tutte le altre regioni del pianeta”. Anche il ruolo del CO2 è stato ridimensionato da Prodi: “Certo che influisce sul riscaldamento della Terra – ha sottolineato il climatologo – ma è pure vero che esiste una miriade di altri fattori, e di molti non sappiamo abbastanza, come degli scambi oceani-atmosfera. In realtà stiamo cercando di realizzare dei modelli di monitoraggio completi, che tengano conto di tutti i fattori, ma ancora non li possediamo. E, se anche li avessimo già, dovremmo tener conto che spesso il sistema climatico può avere un comportamento non lineare”.
A fronte di tanta incertezza, Brian Flannery del colosso petrolifero ExxonMobil (proprietario dei marchi Esso e Mobil), che non teme l’accusa di sostenere interessi di parte, ha chiarito come la prudenza dovrebbe essere la prima regola da seguire, in tema di politiche ambientali: “Bisognerebbe ridurre i rischi, ma a costi accettabili per la società, non chiedendo di abbandonare risorse energetiche collaudate in favore di tecnologie che, allo stato attuale, non sappiamo quanto e come saranno accessibili e a che prezzo. Nel frattempo, l’impegno di tutti i paesi e delle imprese dovrebbe essere rivolto a una politica di efficienza energetica e di sostegno alla ricerca in vista di una riduzione delle emissioni di gas serra. Anche perché assumere che determinate tecnologie come il nucleare e il carbone saranno realmente a ‘costo zero’, come alcuni vogliono farci credere, non è affatto scontato”, ha detto il rappresentante del gruppo petrolifero.
Per Carlo Stagnaro, direttore del Dipartimento energia e ambiente dell’Istituto Bruno Leoni, “esiste un rapporto di stretta correlazione tra libertà economica e efficienza energetica: nei paesi dove l’impresa è libera e vigono le leggi del mercato e dell’innovazione, il risparmio di energia (e quindi il minor inquinamento) è una realtà. Al contrario, paesi poco liberi economicamente come Cina e India inquinano molto più, in proporzione, di Stati Uniti e Giappone. Dovremmo porre le basi per un ambientalismo che sia amico dell’impresa e della tecnologia, e non che tenda a demonizzarle”.
Alan Patarga

(© Il Foglio, 17 ottobre 2007)

martedì 16 ottobre 2007

Ricapitolando


Nuovo fuso orario, nuovo stato civile (dal 28 luglio, vedi foto), presente fogliante, futuro (sempre) incerto. Benritrovata, Italia.

lunedì 15 ottobre 2007

Ora tocca a voi


Bello o brutto che sia, il Partito democratico ora è un fatto. E ha un leader che, seppure per molti versi sfuggente e mellifluo, è sufficientemente credibile per essere temibile. Per completare la grande rivoluzione italiana, quella iniziata dal Cav. a gennaio '94 e perfezionata ieri da W., serve ora un nuovo sforzo nel centrodestra, un Partito dei moderati o un Partito delle Libertà in grado di semplificare il panorama politico italiano e renderlo finalmente civile. Basterebbe la fusione di Forza Italia e An, di fatto già avvenuta da anni tra gli elettori. Se è vero che il sistema proporzionale spagnolo potrebbe darci un quadro con Pdl e Pd in grado di spartirsi l'80-85 per cento dell'elettorato (salvando alcuni partiti radicati territorialmente come Lega, Udc e Udeur e spazzando via del tutto o quasi l'estrema sinistra e i gruppuscoli neofascisti), allora c'è una sola cosa da fare: sbrigarsi.

Lo strano tandem Draghi-Veltroni


Roma. “La sfida cruciale della finanza pubblica italiana consiste nel realizzare congiuntamente l’abbattimento del peso del debito e la riduzione del carico fiscale che grava sui contribuenti onesti”. Le parole scelte ieri da Mario Draghi, nel corso dell’audizione sulla Finanziaria delle commissioni Bilancio di Camera e Senato, per chiarire quale sia la priorità delle priorità per la politica economica dei prossimi anni, sono suonate terribilmente simili a quelle scelte da Walter Veltroni appena quarantott’ore prima. Lunedì, il candidato numero uno alla leadership del Partito democratico aveva lanciato la sua “cura choc” per la riduzione del debito pubblico italiano a base, soprattutto, di privatizzazioni del patrimonio demaniale. Martedì era stata la volta del commissario europeo agli Affari economici, Joaquin Almunia, che aveva chiesto all’Italia di “rispettare” i suoi impegni in vista della riduzione del debito pubblico, “il più alto d’Europa”. Ieri è intervenuto il governatore della Banca d’Italia, chiamato a pronunciarsi sulla bozza di legge finanziaria approntata dal governo: a suo avviso “mantiene le principali poste del bilancio pubblico sui livelli previsti per l’anno in corso, non sfrutta il favorevole andamento delle entrate per accelerare la riduzione del debito e non restituisce ai contribuenti una quota significativa degli aumenti di gettito”. Anzi, le tasse di fatto aumenteranno: “La struttura dell’Irpef si caratterizza per un elevato grado di progressività che, per effetto dell’inflazione, determina ogni anno un aumento del prelievo sulle famiglie superiore a quello della capacità contributiva”, ha spiegato Draghi, che è poi tornato sulla necessità di alzare l’età pensionabile. Più tardi, anche il presidente della Corte dei conti, Tullio Lazzaro, ha rilevato con “perplessità e preoccupazione” che la Finanziaria “è caratterizzata da una continua revisione verso l’alto delle stime sul gettito fiscale” e che il tesoretto potrebbe rivelarsi di soli 2,3 miliardi di euro (da 5,9).
A ben vedere, quella di ieri non è stata però la prima occasione di sintonia tra il governatore e il sindaco di Roma. Qualche settimana fa, Veltroni aveva chiesto l’adozione di un “nuovo patto fiscale” dove “a mutare deve essere la composizione interna della pressione fiscale, che oggi è sperequata a svantaggio dei contribuenti leali e a favore di quelli meno onesti”, parole molto simili a quelle usate ieri da Draghi. Che sia casuale o no, il fatto che – dalle considerazioni finali del governatore di Palazzo Koch al discorso del Lingotto di Veltroni fino a ieri – i temi, i tempi, le parole e in parte anche le ricette che i due propongono finiscano spesso per assomigliarsi è un dato singolare che potrebbe dire molto sulla Veltronomics prossima ventura.
Nel discorso-manifesto di Torino, da dove è partita la sua corsa per conquistare la guida del Pd, Veltroni era riuscito a non nominare nemmeno Antonio Gramsci ma a citare tre volte (più di qualunque altro) proprio Mario Draghi. E lo ha fatto parlando di invecchiamento della popolazione e di pensioni, ma anche di “questione meridionale”. Temi sui quali il governatore di Bankitalia è tornato nelle due prime occasioni pubbliche a disposizione dopo il discorso del Lingotto: il 16 luglio durante l’audizione parlamentare sul Dpef e il 12 settembre all’Università di Brescia, dove era chiamato a parlare in ricordo dell’economista Riccardo Faini. A Brescia, Draghi chiarì come non fosse possibile un’Italia ricca con un meridione in affanno perché “il paese non si riprende se il sud non decolla”. Pochi giorni più tardi, per la prima volta W. prendeva carta e penna per scrivere alla Gazzetta del Mezzogiorno (2 ottobre) e al Mattino (il 4) che “è il Mediterraneo il nuovo crocevia mondiale del secolo e il sud ne deve approfittare” e di essere “con il sud per rompere il silenzio” dell’omertà mafiosa.
Per l’economista Francesco Giavazzi, autore (con Alberto Alesina) di un recente saggio sul liberismo “di sinistra” edito da il Saggiatore, “un linguaggio comune tra i due c’è, ma con una differenza”: “Sicuramente Veltroni e Draghi sono più vicini di quanto quest’ultimo non lo sia con l’attuale ministro dell’Economia – spiega al Foglio il professore bocconiano – ma l’idea del sindaco di Roma di risolvere, sia pure parzialmente, il problema del debito pubblico con un’ampia opera di dismissioni del patrimonio dello stato non credo rientri nello spirito di Draghi. Quello di Veltroni è un approccio che può essere risolutivo per un comune anche grande come quello di Roma, non per l’Italia. Probabilmente ha preferito puntare su quello, anziché sulla necessità di ridurre drasticamente la spesa pubblica, per esigenze politiche, ma a mio avviso il leader in pectore del Partito democratico avrebbe dovuto essere più coraggioso. Se non lo è adesso, quando potrà esserlo?”. L’economista e deputato ulivista Nicola Rossi (candidato a Roma nella lista dei Democratici per Veltroni) sostiene che “certi punti di convergenza tra i due non sorprendono affatto, anzi erano tutto sommato attesi, anche tenendo conto delle posizioni che tanto il governatore di Bankitalia quanto il sindaco di Roma hanno da molto tempo, ormai, sulle questioni della politica di finanza pubblica. Conosco entrambi molto bene, ma non so dire se siano in contatto o no: non tengo il conto delle telefonate né di uno né dell’altro”.

(@ Il Foglio, 12 ottobre 2007)

Proviamo


Se tutto va per il meglio, Sciopenàuer trasloca.