sabato 8 novembre 2008

Ciao, Gino


Era un grande giornalista, ma per me è stato soprattutto un maestro e un papà in uno dei momenti più difficili della mia vita. Poi, come a volte accade nella vita – che presto o tardi è sempre crudele – per qualche mese ci siamo persi di vista, perché di mezzo c'erano un lavoro che cambiava, un trasloco da fare, tante cose che si accavallavano. Così la solita telefonata per sapere delle famiglie, delle novità sul lavoro (mie) e sui nipoti (suoi) e per parlare di politica e della nostra Toronto ha finito per essere rimandata. Stamattina ho telefonato a casa di Gino Fantauzzi e, come tante altre volte, ho chiesto di lui. Ma Gino è morto lo scorso 12 marzo e non potrò parlargli mai più. Gli altri – gli amici e i giornali – lo hanno già ricordato come l'ex direttore del Corriere Canadese degli anni Sessanta, come il massimo esperto italiano di emigrazione e turismo, come l'ex inviato del Tempo che fece dire a Marshall McLuhan (era il febbraio del '78) che con le Br c'era una sola cosa da fare: staccare la spina. Hanno ricordato le interviste importanti, da quella ad Hailè Salassiè a quella fatta a Pelé, ma i miei ricordi sono altri: le chiacchierate in veranda nelle sere d'estate in Canada, le ciliegie "rubate" dall'albero della signora che ci ospitava, gli spaghetti con la "bomba" calabrese e i cipollotti e la sua amatriciana (forse la migliore che abbia mai mangiato), le passeggiate a College Street per vedere se da Giovanna c'era gente oppure no, le canzonette d'una volta cantate a squarciagola nel traffico di Toronto, le serate con Vito e Tony, l'aparecchio acustico che funzionava sì e no, il peperoncino sempre in tasca per ogni evenienza. Sono ricordi che non si perderanno mai, come il rimpianto di non esserci stato a dirti addio.
Ciao, Gino. E scusa il ritardo.

mercoledì 5 novembre 2008

Ma non chiamatela valanga


Reagan '84: 525 voti elettorali su 538 (vedi immagine sopra).
Roosevelt '36: 523.
Nixon '72: 520.
Reagan '80: 489.
Johnson '64: 486.
Roosevelt '32: 472.
Eisenhower '56: 457.

Persino Clinton (379 nel '96 e 370 nel '92) e Bush sr. (426 nell'88) hanno fatto meglio di Barack Obama, che ha vinto bene, anzi benissimo. Ma non chiamatela valanga.

martedì 4 novembre 2008

E se finisse così?





Stanotte in diretta con la storia


Da mezzanotte alle 8 del mattino una no-stop di news e analisi sulla webradio dell'università Guido Carli. Dalle 6 alle 8 ci sarà anche il sottoscritto.

lunedì 3 novembre 2008

A guardare il toto Tesoro di Obama si vede poco socialismo e tanto clintonismo


Washington. Se i circoli della sinistra americana si augurano che Barack Obama dia più ascolto a Paul Volcker e a Warren Buffett per decidere – se eletto – il futuro economico del paese, allora significa che le alternative del probabile prossimo presidente degli Stati Uniti sono ancora più a destra di un ex governatore della Fed nominato da Jimmy Carter e confermato da Ronald Reagan e dell’uomo più ricco del mondo. John McCain – la tattica elettorale glielo impone – dice che non è così e che un’ipotetica Amministrazione Obama aprirebbe le porte al “socialismo all’europea”, ossia a tasse più elevate e a un aumento indiscriminato della spesa pubblica a partire dai settori da sempre cari alla sinistra liberal, istruzione e sanità. Per smentirlo, basterebbe elencare i nomi dei possibili candidati democratici alla poltrona di segretario al Tesoro che in questi giorni circolano sui giornali.
Tutti i commentatori concordano su due cose: che in tempi di crisi economica globale sarà proprio quello di segretario al Tesoro il ruolo chiave nella prossima Amministrazione e che, almeno nel campo democratico, la lista dei papabili è limitata a cinque o sei nomi. Il primo, almeno per chi crede nel dream team obamiano, è sicuramente quello di Warren Buffett, fondatore del fondo Berkshire Hathaway e da pochi mesi primo nella classifica mondiale dei super ricchi (al posto di Bill Gates). Quello che ormai è conosciuto in America come “l’oracolo di Omaha” – perché quando lui dice che un titolo è da comprare, vuol dire che è da comprare – è senza dubbio un finanziere con simpatie a sinistra e recentemente ha pure criticato l’eccesso di deregulation in campo finanziario nell’ultimo ventennio, però difficilmente si può definire un socialista. Lo stesso discorso si può fare per l’altro candidato forte, tra i democratici, al Tesoro: Jamie Dimon, ceo di JP Morgan Chase, una delle poche banche che – acquistando prima Bear Stearns e poi Washington Mutual – ha dimostrato con i fatti di non essere tra quelle in sofferenza a causa della crisi del credito. Come Buffett, Dimon è da sempre vicino ai democratici e spesso ha finanziato le campagne elettorali di alcuni esponenti liberal. Alle ultime primarie ha sostenuto la candidatura di Hillary, ma questo non dovrebbe essere un problema. La vicinanza ai Clinton è infatti un tratto in comune con tutti gli esperti economici che gravitano intorno a Barack Obama. E’ il caso di Laura Tyson, capo economista dell’Amministrazione democratica nei primi anni Novanta ed ex consigliere d’amministrazione di Morgan Stanley, oppure del giovane (ha 47 anni) Timothy Geithner, attuale presidente della Federal Reserve di New York e sottosegretario al Tesoro nell’ultimo biennio clintoniano. Per non parlare di Robert Rubin (segretario al Tesoro dal 1995 al ’99) e Lawrence Summers (dal ’99 a fine mandato), tra i principali consiglieri economici di Obama e con ottime probabilità di tornare a lavorare per l’Amministrazione in ruoli di prestigio.
Sono i due ex ministri clintoniani i membri di quella “free market élite” che poco piace nei circoli della sinistra liberal d’America e che ora, per ridurne le chance di ritorno al governo, ricorda come sia stato Rubin – d’intesa con l’allora capo della Fed, Alan Greenspan – a battersi contro la regolamentazione dei derivati finanziari. Summers, invece, è criticato soprattutto per i commenti politicamente scorretti di quando presiedeva l’Università di Harvard. I due sono anche gli animatori di un giovanissimo think tank, l’Hamilton Project, nato nel 2006 come costola di un pensatoio storico della sinistra americana, la Brookings Institution. E’ da questo centro studi che vengono quasi tutti i cervelli economici del team Obama. Gli economisti che ne fanno parte sono molto centristi e, per questo, odiati dai sindacati e dai gruppi di sinistra. Invitano a usare la leva fiscale, a fare investimenti nelle infrastrutture e allargare la base produttiva di ricchezza dell’America, piuttosto che a diffondere la ricchezza. Rubin e Summers sono i capi, ma la mente operativa fino a pochi mesi fa era Jason Furman, 37 anni, allievo di Rubin e ora direttore delle politiche economiche di Obama. Uno che, fino a un anno fa, sosteneva il modello di riforma sanitaria proposto da John McCain.
Alan Patarga

(© Il Foglio, 29 ottobre 2008)