Era un grande giornalista, ma per me è stato soprattutto un maestro e un papà in uno dei momenti più difficili della mia vita. Poi, come a volte accade nella vita – che presto o tardi è sempre crudele – per qualche mese ci siamo persi di vista, perché di mezzo c'erano un lavoro che cambiava, un trasloco da fare, tante cose che si accavallavano. Così la solita telefonata per sapere delle famiglie, delle novità sul lavoro (mie) e sui nipoti (suoi) e per parlare di politica e della nostra Toronto ha finito per essere rimandata. Stamattina ho telefonato a casa di Gino Fantauzzi e, come tante altre volte, ho chiesto di lui. Ma Gino è morto lo scorso 12 marzo e non potrò parlargli mai più. Gli altri – gli amici e i giornali – lo hanno già ricordato come l'ex direttore del Corriere Canadese degli anni Sessanta, come il massimo esperto italiano di emigrazione e turismo, come l'ex inviato del Tempo che fece dire a Marshall McLuhan (era il febbraio del '78) che con le Br c'era una sola cosa da fare: staccare la spina. Hanno ricordato le interviste importanti, da quella ad Hailè Salassiè a quella fatta a Pelé, ma i miei ricordi sono altri: le chiacchierate in veranda nelle sere d'estate in Canada, le ciliegie "rubate" dall'albero della signora che ci ospitava, gli spaghetti con la "bomba" calabrese e i cipollotti e la sua amatriciana (forse la migliore che abbia mai mangiato), le passeggiate a College Street per vedere se da Giovanna c'era gente oppure no, le canzonette d'una volta cantate a squarciagola nel traffico di Toronto, le serate con Vito e Tony, l'aparecchio acustico che funzionava sì e no, il peperoncino sempre in tasca per ogni evenienza. Sono ricordi che non si perderanno mai, come il rimpianto di non esserci stato a dirti addio.
Ciao, Gino. E scusa il ritardo.
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