Washington. Non succedeva dal 1982 che la Fed abbassasse i tassi di interesse di tre quarti di punto in un sol giorno. E’ successo di nuovo ieri mattina, quando il governatore della Banca centrale americana ha fatto diffondere un comunicato in cui rendeva nota la decisione di abbassare il costo del denaro di 0,75 punti percentuali. Con il tasso di riferimento sui Fed Funds al 3,5 per cento, quello di sconto al 4 e l’indicazione di aver agito “a fronte di un indebolimento dell’economia e dei rischi per la crescita”, come recitava la nota diffusa dalla Federal Reserve prima dell’apertura delle contrattazioni a Wall Street, la mossa di Ben Bernanke è sembrata una resa alla marea montante dei catastrofisti che, da settimane, pronosticavano l’arrivo di una recessione per l’economia americana. Dall’esplosione del caos dei mutui subprime i segnali di affanno per l’economia statunitense si sono effettivamente moltiplicati, ma ancor di più si sono moltiplicate le voci di chi ha fatto della “parola con la R” (come la chiamano parecchi giornali americani in questi giorni) una parola d’ordine. Ieri mattina la Borsa di New York, che lunedì era rimasta chiusa per il Martin Luther King Day evitando di risentire del terremoto asiatico, ha segnato perdite importanti nelle prime ore di contrattazioni seguendo la scia dei mercati asiatici e di quelli europei, che hanno continuato a bruciare centinaia di miliardi di dollari. Sui giornali, e in particolare sui giornali liberal, la situazione è stata letta come il prologo di una tragedia: “La mossa della Fed è la dimostrazione che c’è preoccupazione per una possibile recessione”, era uno dei commenti pubblicati ieri sulla versione online del New York Times, sebbene il comunicato parlasse soltanto di “rischi per la crescita”. Eppure, nonostante una perdita di circa 460 punti dell’indice Dow Jones, i numeri per parlare di martedì nero non ci sono stati. Nel 1987 l’indice medio dei titoli industriali perse infatti 508 punti ma, come spiegava ieri l’analista finanziario Peter McKay sul Wall Street Journal, “avrebbero dovuto essere 2.700 per avere un crollo di Borsa equivalente a quello” di ventuno anni fa. A registrare le maggiori difficoltà sono stati gli istituti di credito. Ieri Bank of America e Wachovia hanno dichiarato perdite del 95 e del 98 per cento e Wall Street ha reagito deprezzando i loro titoli.
(segue dalla prima pagina) La situazione del sistema bancario americano è critica, e una recessione potrebbe non essere la peggiore delle prospettive. La crisi economica aprirebbe alle banche e alle società coinvolte nella crisi subprime la strada degli aiuti di stato e del protezionismo. Il pacchetto di “stimoli” all’economia caldeggiato dai democratici, approvato da Bush e benedetto da Bernanke è un prodromo di quel che potrebbe accadere se il sistema bancario così in affanno riuscisse ad affermare la sua agenda politica necessariamente (al momento) dirigista. Magari, a pochi mesi dalle elezioni, imponendo un presidente democratico. La grande stampa economico-finanziaria, che vive anche grazie alle ricche inserzioni pubblicitarie del sistema bancario statunitense, si è ben guardata dal non assecondare questa voglia di crisi e ha anzi sottolineato, interpellando spesso economisti bancari sulla prospettiva di una recessione. Con la parziale eccezione del WSJ e dell’agenzia Bloomberg, il risultato delle consultazioni è stato terribile. Ben prima che i mercati cominciassero a bruciare miliardi di dollari all’ora, sui giornali la sindrome del ’29 era già scoppiata. Le previsioni dello stesso Bernanke – che appena una settimana fa diceva che “nel 2008 non si prevede una recessione”, come ha ribadito ieri ancora la Casa Bianca: “E’ soltanto una frenata” – non venivano prese sul serio, contrariamente a quelle dell’ultimo dei junior analist di Citigroup o di Merrill Lynch. Un sondaggio condotto da Bloomberg lo scorso 9 gennaio tra 62 economisti (per lo più accademici) che smentivano l’ipotesi di una recessione è rimasto confinato al notiziario dell’agenzia del sindaco di New York. Eppure i dati dicono che l’economia americana continuerà a segnare una crescita, sia pure modesta, nel 2008. Si parla di un 1,5 per cento che è poca cosa per gli standard degli Stati Uniti, ma che è poco meno della media attuale europea. Con l’Iraq fuori dal dibattito perché il “surge” funziona, l’economia si è trasformata nel tema centrale della campagna elettorale. Bernanke, abbassando i tassi, ha cercato di sottrarla ai politici per non ripetere il 1992, quando l’inazione di Alan Greenspan portò Bush senior a perdere la Casa Bianca.
Alan Patarga
(© Il Foglio, 23 gennaio 2008)
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