sabato 9 febbraio 2008

Yes, we spend


Washington. Nella campagna per le primarie c’è un vecchio luogo comune che si conferma certezza: il partito della spesa è quello democratico. Sarà che i repubblicani, al governo da due mandati, hanno già trovato tutti i modi a loro congeniali di impegnare i fondi pubblici, o sarà forse che la sinistra – in vistosa astinenza da potere – non vede l’ora di redigere un bilancio federale con parametri tutti suoi, fatto sta che da una ricerca condotta dagli analisti economici della National Taxpayers’ Union Foundation emerge che una presidenza democratica potrebbe rivelarsi assai più “dispendiosa” della già non troppo parsimoniosa Amministrazione Bush. Lo studio analizza le promesse fatte dai candidati dell’uno e dell’altro partito. I dati sono preceduti da un avvertimento: spesso l’esperienza ha insegnato che le promesse elettorali non sono mantenute, mettono le mani avanti i ricercatori. A giudicare dai risultati dello studio, non è detto che possa essere un male per gli statunitensi, considerato che agli aumenti di spesa pubblica corrisponderebbe inevitabilmente un inasprimento fiscale.
Quello che sulla carta promette di attingere più spesso all’erario pubblico è Barack Obama. Stando alle valutazioni dell’organizzazione dei contribuenti, infatti, il senatore dell’Illinois ha promesso che, una volta eletto, cercherà di far approvare al Congresso nuove spese per circa 287 miliardi di dollari, molte delle quali andrebbero a coprire i costi di nuove infrastrutture (circa 105 miliardi) e quelli per il potenziamento del sistema sanitario (più 100 miliardi). Secondari gli aumenti di spesa proposti per l’istruzione (più 30 miliardi) e la sicurezza nazionale (più 14 miliardi). Obama è in buona compagnia. Subito dietro, nella classifica dei “big spender” c’è Hillary Clinton. L’ex first lady ha ipotecato un aumento degli investimenti pubblici di poco inferiore a quello di Obama: circa 218 miliardi di dollari. Le sue voci di spesa preferite sono la sanità, suo vecchio amore (più 113 miliardi) e la sicurezza interna (più 105). A prendere per buoni i dati della Taxpayers’ Union, la mania della spesa pubblica accomunerebbe democratici e social conservatives come l’ex governatore dell’Arkansas e pastore battista, Mike Huckabee, e l’ex attore ormai ritiratosi dalla corsa Fred Thompson, che per attuare i loro programmi avrebbero bisogno di maggiori fondi pubblici, rispettivamente, per 54 e 56 miliardi di dollari. Tanto l’uno quanto l’altro avrebbero impegnato questi fondi, se eletti, per potenziare il sistema di difesa nazionale e la rete diplomatica degli Stati Uniti.
I big del Grand Old Party rientrano però tutti, chi più chi meno, nella casistica opposta, con la parziale eccezione di Mitt Romney, che avrebbe impegnato 40 miliardi di dollari in più per la difesa nazionale. L’ex governatore del Massachusetts, che ieri ha sospeso la propria campagna, aveva anche proposto tagli per circa 20 miliardi. L’attuale frontrunner, il senatore John McCain, spenderebbe in tutto meno di sette miliardi di dollari in più rispetto al bilancio federale 2007 e spalmerebbe le spese un po’ su tutti i settori della pubblica amministrazione, dall’istruzione alla sicurezza nazionale. Il suo ex rivale e ora principale sponsor, l’ex sindaco newyorchese Rudy Giuliani, avrebbe fatto di meglio, tagliando la spesa di oltre un miliardo e mezzo di dollari. Il sindaco d’America avrebbe concentrato gli sforzi di risanamento tagliando una piccola parte della spesa sanitaria e combattendo gli sprechi della pubblica amministrazione, con tagli per oltre 25 miliardi di dollari. Meglio di lui, se finisse alla Casa Bianca, potrebbe fare soltanto il candidato dell’ala libertaria del Partito repubblicano, quel Ron Paul che non ha paura di dire che lo stato è il principale nemico del cittadino statunitense. Con lui presidente, la spesa pubblica si ridurrebbe di circa 150 miliardi perché privatizzerebbe completamente l’istruzione, taglierebbe i sussidi all’agricoltura e ritirerebbe le truppe americane da tutti i teatri di crisi nel mondo.

(© Il Foglio, 8 febbraio 2008)

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