martedì 5 febbraio 2008

Forti venti di business


I numeri dicono che è stato l’anno dei successi. Anzi, il miglior anno di sempre: circa “634 megawatt di potenza installata e 4,3 terawattora di energia prodotta, pari al consumo di 4,5 milioni di italiani e quattro milioni di tonnellate di CO2 risparmiate”. I dati sono quelli annunciati un paio di settimane fa dall’Anev, l’associazione dei produttori di energia del vento che, presentando i risultati relativi al 2007, ha anche puntato il dito contro “tutti gli ostacoli posti da chi tenta di ritardare la diffusione delle rinnovabili”. Messa così, la battaglia dei contrari allo sviluppo indiscriminato dell’energia eolica in Italia sembra una crociata di retroguardia contro lo sfruttamento delle fonti di energia alternativa, una battaglia – è il caso di dire – contro i mulini a vento, magari portata avanti dalla lobby del petrolio. Lo schema, però, è rispettato soltanto a metà: perché se da una parte c’è l’Anev che, pur essendo un’associazione di imprenditori, vanta (forse unica) ottimi rapporti con i Verdi e Legambiente, dall’altra c’è un fronte composito che va dagli scettici sulle potenzialità delle rinnovabili agli ecologisti di Italia Nostra e di parecchie associazioni ambientaliste locali.
Sono stati questi ultimi, l’estate scorsa, a vincere una delle battaglie più difficili contro il business del vento, che in Italia conta una fetta considerevole (ma non maggioritaria) dei 30 miliardi del giro d’affari europeo per l’intero settore e l’appoggio dell’ambientalismo che conta. Ciononostante, il Tar di Firenze lo scorso luglio ha dichiarato illegittimo il parco eolico inaugurato poche settimane prima a Scansano, in piena Maremma, a due passi dai filari del Morellino e da un castello dell’Undicesimo secolo. Il ricorso l’avevano presentato il proprietario del maniero, Jacopo Biondi Santi (discendente degli “inventori” del Brunello di Montalcino e rinomato produttore vinicolo) e la stessa Italia Nostra che, a corredo della notizia della sentenza, aveva diramato un comunicato in cui si spiegava come “in un paese come l’Italia, molto densamente abitato e ricco di storia e di monumenti, non si può fare l’eolico industriale impiantando macchine gigantesche se non forzando costantemente le norme di tutela paesaggistica e ambientale. La vicenda di Scansano diventa così emblematica di tante altre vicende meno conosciute. Quasi ovunque infatti le autorizzazioni a costruire le torri eoliche vengono date in violazione della legalità, o comunque forzandola. Spesso si sono fatte misurazioni del vento o valutazioni di incidenza risibili. E sulla base di questo si è autorizzato lo scasso di un paesaggio. Se si poteva violare il paesaggio di Scansano, si sarebbe varcato ogni limite. Si poteva continuare a uccidere il paesaggio toscano. E nessuno avrebbe frenato la corsa all’eolico nel sud. Sarebbe stato un Far west”. La risposta stizzita di Legambiente, che parlava di “posizione elitaria” e volta a “negare le ragioni stesse dell’ambientalismo”, sarebbe arrivata poche ore più tardi.
Una cosa sembra però certa: che, come dice Italia Nostra, il caso di Scansano sia in realtà la punta dell’iceberg del milionario business che, soprattutto, soffia forte nell’Italia meridionale.
La frontiera del vento, in questo senso, sembra essere la Puglia, negli ultimi anni diventata terra di conquista delle aziende che hanno deciso di far utili facendo girare le pale e ricavandone energia elettrica. L’epicentro è la provincia di Foggia. Da quelle parti il fenomeno lo hanno ribattezzato già “pala selvaggia”. Qualcuno fa notare le contraddizioni di un’area, la Capitanata appunto, che vanta allo stesso tempo il maggior numero di parchi eolici d’Italia e la più elevata densità di aree protette destinate a parco naturale. A Ponte Albanito, nei pressi del capoluogo, da tempo si discute sull’opportunità di approvare un parco di smisurate torri del vento alte centodieci metri. Sulla stessa direttrice, a Troia, il comune può vantare un piccolo record, quello delle autorizzazioni alla costruzione di impianti eolici concesse: centocinquanta, una più una meno. Lì l’amministrazione è di centrodestra, a Ponte Albanito a governare è il centrosinistra. I dubbi e le polemiche, però, sono gli stessi. Così come i proventi derivanti dalle concessioni.
Quello delle pale eoliche, prima ancora che per i produttori, è infatti un business per i comuni, che incassano royalty direttamente commisurate al fatturato degli impianti: si va dall’1,3 a più del 2 per cento in media, dicono all’Anev, ma i gruppi più agguerriti promettono fino al 15 per cento pur di veder evasa la pratica, salvo poi rivendere l’autorizzazione per centinaia di migliaia di euro a gruppi in grado di gestire gli impianti. Gli esperti valutano che un impianto di media potenza costituito da una sola pala produca un margine lordo di oltre due milioni e mezzo di euro. E impianti da un’unica torre non esistono da nessuna parte. Fare i conti non è difficile. Nel grande gioco del vento, però, i comuni non sono i soli a guadagnare: guadagnano, e subito, gli agricoltori e i proprietari terrieri in genere che accettano di privarsi per 25 o 30 anni di parte dei loro possedimenti per consentire l’erezione dei giganti del vento. I dati dicono che l’affitto ai colossi dell’eolico frutti dai tre ai cinquemila euro al chilowattora, ossia sei volte più della “integrazione comunitaria” per la produzione del grano. Chi continua a curare le colture dopo aver detto sì alle pale, insomma, probabilmente fa l’agricoltore più per passione che per guadagnare. Eppure, nonostante le laute percentuali elargite a comuni e proprietari terrieri, le aziende del settore benedetto dall’ambientalismo militante continuano a macinare utili. Il trucco c’è e porta il nome di “certificato verde”.
I certificati verdi sono un’invenzione della legge Bersani del 2000, mai messa in discussione dal ministero dell’Ambiente sotto la gestione Matteoli e sfruttata alla sua massima potenzialità durante quella di Alfonso Pecoraro Scanio, che era il titolare del medesimo dicastero anche ai tempi dell’approvazione della normativa. Si tratta del sistema di incentivi statali per la produzione di energia eolica in Italia: uno studio di Nomisma Energia sostiene siano essi a far sì che un mulino a vento hi-tech risulti redditizio per chi lo gestisce. Chi critica la gestione del business del vento dice invece che esso, per quanto deprecabile soprattutto sul piano dell’impatto estetico sui territori interessati, potrebbe reggersi sulle proprie gambe senza il bisogno dei fondi pubblici. Il sistema, nel suo complesso, è piuttosto intricato: secondo la legge Bersani, a partire dal 2002 tutti i produttori di energia del paese devono immettere in rete un quantitativo di energia elettrica prodotta da fonti rinnovabili pari ad almeno il 2 per cento di quanto prodotto da fonti tradizionali (in genere, fossili combustibili). Possono farlo direttamente, costruendo e gestendo impianti solari o eolici, o acquistando il “certificato verde” da chi quell’energia pulita l’ha prodotta davvero. Il produttore di energia rinnovabile, pertanto, incassa due volte: vende l’energia elettrica che produce a prezzi di mercato al gestore della rete (circa sei centesimi al chilowattora) e vende pure i “certificati verdi” ai produttori che utilizzano fonti convenzionali a un prezzo addirittura superiore a quello dell’energia reale (circa dodici centesimi al chilowattora). Il risultato è un guadagno di oltre 18 centesimi al chilowattora che spiega meglio di qualunque altro dato la corsa all’eolico degli ultimi anni. Che è, addirittura, una corsa alla realizzazione di impianti con un coefficiente di produttività relativamente basso (al di sotto cioè dei sei metri al secondo di velocità media annua del vento) che in altri paesi europei capofila nello sviluppo dell’energia eolica – Danimarca, Germania e Regno Unito – non verrebbero nemmeno progettati. Ma in quei paesi il sistema degli incentivi statali è meno premiante di quello italiano e non compensa, da solo, l’assenza dei requisiti minimi di mercato.
In Italia il grosso degli impianti è disseminato sui crinali appenninici e, in generale, al centro-sud. In Puglia, in Campania e in Sicilia c’è la maggior concentrazione di torri del vento, alcune alte fino a 140 metri. Tanto per fare un esempio, tra il 2006 e il 2007 una delle società leader del settore, Alerion, ha acquistato direttamente o per il tramite di società partecipate gli impianti di Eolo srl e parte di quelli di Dotto srl in Campania (per un totale di quasi duecento megawatt autorizzati e altrettanti in fase di autorizzazione). Altri 60 milioni di euro sono stati spesi dalla stessa società per l’acquisizione di un campo eolico in Sicilia da 36 megawatt, di un altro in Puglia da 34, altri impianti ancora in Sicilia tra l’Agrigentino e il comune di Vizzini, nel Trapanese, e a Lacedonia, nell’Avellinese. Il risultato sono centinaia di milioni di euro finanziati con project financing in poco più di dodici mesi: investimenti faraonici che soltanto il sistema dei certificati verdi riesce a giustificare. La redditività del settore, che pure c’è, non potrebbe compensare mai spese simili, anche in considerazione dell’esiguo apporto della rete eolica al fabbisogno energetico del paese: assai meno dell’un per cento. Eppure, nei documenti stilati dal ministero dell’Ambiente, negli appelli di Legambiente e negli studi condotti in tandem dall’Anev e da Greenpeace, la realtà appare un’altra. “Colpisce il fatto che l’Università di Utrecht valuti 24 terawatt (12 mila megawatt) il potenziale tedesco e 69 (34.500 megawatt) quello italiano”, scrivevano nel 2005 i responsabili del dipartimento Politiche della sostenibilità dei Ds, guidato dall’ex ministro dell’Ambiente, Edo Ronchi, fresco transfuga dai Verdi. Nello stesso studio si ipotizzava “un’occupazione potenziale di 18 mila addetti nell’intero Mezzogiorno” e si magnificava il miracolo economico ed energetico che l’eolico avrebbe a breve garantito. Per Domenico Colante, responsabile per tredici anni del dipartimento Fonti rinnovabili dell’Enea, un tempo sostenitore e oggi critico dell’eolico, il messianismo che circonda questa e altre energie alternative è fuori luogo. Intervistato tre mesi fa da Panorama, Colante ha ricordato come “nel Piano energetico nazionale 1988, l’Enea prevedeva l’installazione di pale eoliche per massimo di 600-1.000 megawatt, rispettando le zone paesaggisticamente pregiate. Oggi siamo a 1.800 megawatt e si vuole arrivare a 8-10 mila. E’ assurdo: se le mettessimo in fila, avremmo 2.700 chilometri di torri eoliche in un paese che è lungo al massimo 1.200 chilometri. Uno scempio ambientale senza precedenti. E oltretutto non risolveremmo il problema energetico: ottomila megawatt di potenza installata produrrebbero 16 terawattora di elettricità, che coprirebbero sì e no il 4,5 per cento del fabbisogno elettrico nazionale. Ridurremmo le emissioni di anidride carbonica solo dell’1,5 per cento. Ci conviene giocarci ambiente e paesaggio per così poco?”.
Le cronache di questi mesi raccontano purtroppo anche altri aspetti del business del vento. Nei giorni scorsi il Quotidiano della Calabria ha raccontato delle due inchieste aperte dalle procure di Catanzaro e di Paola sulla gestione delle pratiche per autorizzare impianti eolici nella regione. Nel capoluogo, la Guardia di finanza ha concluso le indagini che hanno portato alla denuncia di due funzionari regionali per falso e abuso d’ufficio. I due, secondo le risultanze dell’inchiesta, avrebbero concesso il loro assenso alla realizzazione di un parco eolico a Caraffa, nel Catanzarese, nonostante il parere contrario della locale amministrazione comunale. L’altra inchiesta riguarda invece un campo di torri del vento a Isola Capo Rizzuto, a pochi chilometri da Crotone, il cui iter autorizzativo sarebbe stato viziato da irregolarità.
Il fenomeno non sarebbe soltanto italiano. Quattro anni fa un’inchiesta del settimanale tedesco Der Spiegel ha messo in luce sprechi, corruzione e criminalità organizzata legati al ciclo dell’energia eolica colpevole – secondo il periodico – di una “distruzione del paesaggio altamente sovvenzionata” che si reggerebbe soltanto grazie a una rete diffusa di corruttela e a dispetto di qualunque bilancio in rosso. Da quelle parti la chiamano già eolomafia.
Alan Patarga

(© Il Foglio, 2 febbraio 2008)

Nessun commento: