sabato 18 ottobre 2008

Ecco tutte le (tante) volte che l’America ha fatto l’Iri


Milano. A chi oggi si meraviglia per la decisione del Tesoro di entrare – per il momento con una prima tranche da 250 miliardi di dollari – nel capitale delle principali banche degli Stati Uniti e ritiene la mossa di Hank Paulson un tradimento dello spirito liberista americano, farebbe bene la lettura di “Fifty Billion Dollars: My Thirteen Years with the Rfc” di Jesse Jones. Non che sia facile reperirne una copia. In Italia non è mai stato tradotto e al di là dell’Atlantico l’ultima ristampa risale al 1975. Su Amazon se ne trovano ancora (chissà per quanto) un paio di copie a poco meno di duecento dollari. Potrebbe valere la pena di spenderli, però, per acquistare l’autobiografia del più grande capitalista di stato della storia.
Se l’Italia ha avuto in Alberto Beneduce la personificazione dell’intervento pubblico nell’economia, lo stesso ruolo – negli stessi anni – in America l’ha ricoperto Jesse Holman Jones. Fu lui – nominato da Hoover nel 1932 nel consiglio d’amministrazione della Reconstruction Finance Corporation (Frc), l’Iri statunitense per eccellenza, e promosso alla sua guida l’anno seguente da Franklin Delano Roosevelt – a gestire i cinquanta miliardi di dollari (da cui il titolo del libro) che servirono all’America per uscire dalla Grande Depressione. Figlio di un produttore di tabacco, costruttore, commissario della Croce rossa statunitense durante la Prima guerra mondiale, Jones ebbe a disposizione il più ricco budget pubblico di sempre. Secondo i calcoli di Alex Pollock, economista all’American Enterprise Institute, “quei cinquanta miliardi sarebbero, considerando soltanto l’adeguamento all’inflazione dal 1933 a oggi, circa 800 miliardi odierni. Tenendo presente anche la crescita nominale del pil da allora ai nostri giorni, la cifra realisticamente più vicina è 12 mila miliardi di dollari”. Con quella montagna di soldi Jones finanziò la ripresa economica del paese durante gli anni Trenta e fino alla fine della Seconda guerra mondiale, quando lasciò tanto l’incarico alla Rfc quanto quello – assunto nel 1940 – di segretario al Commercio nell’Amministrazione Roosevelt. In quegli anni i fondi pubblici messi a sua disposizione servirono, soprattutto, a immettere capitali freschi in oltre seimila tra banche e istituzioni finanziarie che videro lo stato diventare uno dei loro maggiori azionisti, quando non il principale. Lo schema di intervento l’avrebbe spiegato, proprio nella sua biografia, lo stesso Jones. Lo stato, tramite l’agenzia da lui guidata, sottoscriveva quote di capitale delle banche, quindi in quanto socio giudicava l’operato del management e se necessario ne otteneva il cambio. Una volta stabilizzata la situazione, la mano pubblica aumentava il proprio investimento acquistando azioni privilegiate in grado di generare utili in tempi relativamente brevi. Il passo successivo era la vendita ai privati.
Che per un decennio Jesse Jones sia stato l’uomo più potente d’America, o perlomeno il più potente dopo Roosevelt, è più che probabile. Lo credeva pure un giovane democratico texano come lui, Lyndon Johnson, che faticava a uscire dal suo cono d’ombra e a farsi strada verso Washington. Lo chiamava, si dice, “Jesus H. Jones”, e il suo non voleva certo essere un complimento. Sebbene sia stato il più eclatante, il caso della Reconstruction Finance Corp. non è stato il solo nella storia dell’economia statunitense. Lungi dall’essere l’eccezione alla regola, esso è stato semmai l’applicazione pedissequa della regola. Con una differenza: prima della crisi del ’29 l’intervento pubblico nell’economia era quasi sempre giustificato dall’emergenza bellica, e non da quella finanziaria.
Era successo durante la Guerra di secessione, quando Abramo Lincoln ordinò il sequestro per pubblica utilità delle linee ferroviarie e di quelle telegrafiche per ristabilire i collegamenti, interrotti dai simpatizzanti della Confederazione, tra Washington e Annapolis, nel Maryland. Lo fece d’imperio e soltanto qualche mese più tardi il Railroad and Telegraph Act del 1862 legalizzò la decisione, poi confermata da una sentenza della Corte suprema. Un’altra sentenza, del 1920 però, avallò il sequestro delle ferrovie e delle società per l’esercizio telegrafico promosso dalle autorità federali ai tempi dell’ingresso in guerra degli Stati Uniti, nel 1917. I giudici, nel caso Stoehr v. Wallace, confermarono la legittimità della decisione adottata dall’Amministrazione Wilson, che al tempo stesso – con il National Defense Act del 1916 – aveva sancito il diritto del governo americano a prendere possesso delle industrie belliche e di quelle trasformabili allo scopo. La stessa cosa la fece Roosevelt, che durante la Seconda guerra mondiale – per non rompere la pace sociale e scongiurare uno sciopero – nazionalizzò persino una catena di negozi, la Montgomery Ward, fallita nel 2001 e ora attiva soltanto nell’e-commerce. Andò peggio soltanto a Harry Truman, che nel 1952 non riuscì a convincere i supremi giudici americani sulla necessità di confiscare 88 acciaierie per garantire la continuità negli approvvigionamenti militari durante la guerra di Corea.

Banche in crisi e treni in orario
Per rintracciare – Jesse Jones a parte – l’ingresso di capitale pubblico in una banca bisogna arrivare però al 1984 e alla presidenza dell’iperliberista Ronald Reagan. Fu la sua Amministrazione, infatti, a decidere il salvataggio – tramite l’acquisto dell’80 per cento del pacchetto azionario – della Continental Illinois National Bank and Trust, allora una delle dieci banche più grandi d’America. Il Tesoro, nell’operazione, sborsò – attraverso la Federal deposit insurance corporation – circa 4,5 miliardi di dollari per risolvere la grana dei prestiti a buon mercato concessi dalla banca (“troppo grande per fallire”) ai produttori petroliferi del Texas e dell’Oklahoma a cavallo tra gli anni Settanta e gli Ottanta. La privatizzazione arrivò soltanto dieci anni più tardi, nel 1994, quando Bank of America (uno dei nove istituti che per primi cederanno azioni al Tesoro secondo il nuovo piano Paulson) assorbì la Continental Illinois, togliendone il marchio dal mercato.
In tutti i casi, la nazionalizzazione di attività imprenditoriali negli Stati Uniti è stata comunque vissuta come una necessità contingente, un acquisto pro tempore nell’attesa di trovare un privato in grado di rioccupare una nicchia più o meno grande di mercato provvisoriamente in crisi. In tutti i casi, tranne uno. Era il 1970 quando il Congresso approvò il Rail Passenger Service Act, una legge nata allo scopo di sussidiare le ventisei società private che allora gestivano il trasporto ferroviario tra una città e l’altra. L’Amministrazione allora in carica andò oltre e diede vita a un’azienda pubblico-privata, ma controllata a larghissima maggioranza dal governo federale, per gestire direttamente il servizio intercity. Era nata la National Railroad passenger corporation, meglio conosciuta come Amtrak, i cui vertici sono da allora nominati dalla Casa Bianca (e il Senato è chiamato ad avallare la scelta) e che conta tuttora oltre 19 mila dipendenti e quasi 29 milioni di passeggeri ogni anno. Il presidente, allora, era Richard Nixon, un repubblicano. Come Lincoln. Come Hoover. Come Reagan. Come George W. Bush.
Alan Patarga

(© Il Foglio, 16 ottobre 2008)

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