Peccato perché nella hall del Ritz-Carlton Hotel di Half Moon Bay, nel nord della California, era tutto pronto. Le cameriere con la crestina e i maggiordomi in livrea si sarebbero schierati davanti al concierge, pronti ad accompagnare convegnisti e gentili signore (chissà se ufficiali o ufficiose) nelle suite prenotate all’uopo, magari in cambio di una mancia da ricordare. Purtroppo per loro, i manager del gruppo Aig non potranno gustarsi, almeno stavolta, il privilegio della vista mozzafiato dai finestroni in stile secondo Ottocento a picco sul Pacifico. Né perdersi negli oltre millecinquecento metri quadrati del modernissimo centro benessere o discutere con i colleghi su quale, tra i due campi da golf a diciotto buche del sontuoso resort, abbia il percorso più suggestivo. Sarà per un’altra volta, forse. O forse no. Edward Liddy, ceo di American Insurance Group, lo ha scritto qualche giorno fa in una lettera indirizzata al segretario al Tesoro, Hank Paulson. “Siamo in dovere, nei confronti dei nostri dipendenti e dello stesso pubblico, di adottare nuovi standard e un nuovo approccio nella conduzione degli affari”, ha spiegato il manager, aggiungendo che “questi ‘ritiri’ erano da molto tempo la norma nel nostro settore”. Che fossero la norma non c’è dubbio. Non a caso il mese scorso, appena un paio di giorni dopo aver appreso l’intenzione del governo degli Stati Uniti di entrare con 85 miliardi di dollari nel capitale della loro compagnia (con una quota dell’80 per cento), i top manager di Aig sono volati in California, a Monarch Beach, nell’extralusso St. Regis Resort, considerato “uno dei migliori posti dove soggiornare” dalle migliori guide turistiche internazionali. In una settimana, tra workshop e colazioni di lavoro, i capi della più grande compagnia di assicurazioni del mondo hanno speso 440 mila dollari così ripartiti: 200 mila di alloggio, 150 mila di vitto, 23 mila di cure termali e 67 mila di varie ed eventuali. Il conto, sostanzialmente a spese del contribuente americano, l’ha reso noto un deputato repubblicano della California, Henry Waxman, nel corso di un’audizione parlamentare dello scorso 7 ottobre. Il giorno dopo Eddy Liddy ha preso carta e penna e ha scritto a Paulson per scusarsi e annunciargli l’intenzione di annullare il secondo “ritiro” californiano per i manager del colosso delle assicurazioni. Nelle stesse ore, con un’altra lettera, Liddy ha anche chiesto formalmente alla Federal Reserve la concessione di un nuovo prestito da 37,8 miliardi di dollari “per migliorare lo stato di liquidità” della compagnia. Nel giro di poche ore, la Banca centrale guidata da Ben Bernanke ha erogato la somma.
Sia chiaro, quelli di Aig non hanno inventato niente. In principio fu Dick Grasso, l’ex amministratore delegato del New York Stock Exchange. Quando uscì la notizia della sua mega liquidazione da 140 milioni di dollari le polemiche (e le invidie) non mancarono. L’allora procuratore dello stato di New York, Eliot Spitzer, propose una causa contro l’ex top manager di Wall Street perché restituisse i soldi. Quattro anni dopo Grasso ha vinto la causa e si è tenuto la liquidazione perché i giudici hanno riconosciuto che il Nyse era un’azienda privata che poteva pagare quanto voleva i suoi dipendenti e che poi, quanto a qualità, il lavoro del manager italoamericano era stato encomiabile. Era lui, tutto sommato, l’artefice della riapertura dei mercati all’indomani dell’11 settembre, il segnale che nemmeno il terrorismo in casa poteva fermare il sogno americano. Difficilmente si potrebbe dire lo stesso dei grandi manager di banche e assicurazioni alle prese con il rischio di fallimenti, investimenti azzardati e salvataggi pubblici da qualche mese a questa parte. Eppure nemmeno loro sembrano voler rinunciare ai privilegi di un tempo di superlussi che è ieri, ma che sembra lontano secoli. E’ il caso, un’altra volta, di Aig. Nonostante le perdite per 5 miliardi di dollari registrate nell’ultimo trimestre del 2007, il consiglio di amministrazione della compagnia di assicurazioni lo scorso marzo concesse un bonus da 5 milioni di dollari all’allora ceo Martin Sullivan e una buonuscita da 15 milioni, più un contratto di consulenza da 34 milioni di dollari all’ex chief financial officer, Joseph Cassano. A giugno Sullivan è stato sostituito da Bob Willumstad, che per aver ricoperto la carica per soli tre mesi (il mese scorso è stato sostituito, su indicazione del Tesoro, da Liddy) ha maturato il diritto a una liquidazione da 22 milioni di dollari. Willumstad ha rifiutato il premio, ma il suo sembra un caso isolato. Negli ultimi cinque anni i dodici top manager delle principali banche d’America hanno guadagnato, messi assieme, circa un miliardo di dollari. A Dick Fuld, ex ceo della fallita Lehman Brothers, sono andati 256,41 milioni. Nello stesso periodo Lloyd Blankfein, numero uno di Goldman Sachs – una delle poche banche senza grossi problemi a Main Street – ha guadagnato poco meno di 103 milioni e cifre simili sono andate a John Mack di Morgan Stanley, Vikram Pandit di Citigroup e Kenneth Lewis di Bank of America. Il nuovo piano Paulson, che prevede l’arrivo di denaro pubblico (per cominciare 250 miliardi) nelle casse delle principali banche del paese, prevede un ridimensionamento delle “executive pay” e che gli stipendi dei top manager siano stati fin troppo dorati (anche in relazione ai disastrosi risultati ottenuti) cominciano a pensarlo un po’ tutti, tanto che la scorsa settimana gli azionisti di Procter & Gamble, colosso specializzato in prodotti di bellezza, hanno votato una mozione per chiedere il ridimensionamento dello stipendio – giudicato scandalosamente alto – dell’amministratore delegato, Alan Lafley. Lo stesso hanno fatto i piloti della compagnia aerea United Airlines, da tempo in difficoltà, di fronte agli oltre dieci milioni di dollari garantiti al ceo Glenn Tilton ogni anno. Ma è contro i banchieri, soprattutto, a montare l’insofferenza: nel Regno Unito è il caso di sir Fred Goodwin, ex capo di Royal Bank of Scotland (ora nazionalizzata perché in crisi), che lo scorso anno aveva guadagnato 5 milioni di euro e che per andarsene, qualche giorno fa, ha preteso e ottenuto 900 mila euro di pensione.
Alan Patarga
(© Il Foglio, 18 ottobre 2008)
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