sabato 11 ottobre 2008

Così tra cene e litigi Livni e Barak costruiscono il governo


Gerusalemme. Il galateo avrebbe suggerito di servire Yonut Hashaloh, la colomba della pace. La ricetta è semplice, e Tzipi Livni avrebbe persino potuto cimentarvisi, tra una riunione con gli emissari di Shas e un’altra con quelli del partito ultraortodosso della Torah, per amore di patria (e di maggioranza). Bisogna prendere i piccioni aperti a metà e puliti e friggerli in olio abbondante fino a dorarli. Il difficile, semmai, viene dopo, quando l’olio rimanente va travasato in una casseruola aggiungendo margarina, prezzemolo, sedano, aglio, cipolla e alloro. Solo allora comincia la friggitura vera e bisogna cospargere tutto con sale, pepe e vino bianco, prima di spostare la casseruola in forno per un’oretta.
A giudicare dall’esito della cena, il leader di Kadima e suo marito Naftali Spitzer devono aver offerto qualche altra pietanza a Ehud Barak e a sua moglie, Nili Priell. Magari il Charshofay Natseret, il carciofo con misto di carni, o il ricercato Regel Krushah, il vitello in gelatina. Il leader laburista e la sua signora si sono trattenuti alcune ore nella bella casa di North Tel Aviv, il quartiere più snob ed europeggiante della metropoli israeliana. Sugli argomenti affrontati dalle due coppie nel corso della serata non esiste una versione ufficiale. Difficilmente, nonostante la cordialità suggerita dal desco di casa Spitzer-Livni, l’incontro è servito allo scopo per il quale era stato organizzato: sbloccare le trattative per la formazione del prossimo governo israeliano.
Dallo scorso 17 settembre, quando si è aggiudicata la maggioranza dei voti alle primarie di Kadima contro il rivale Shaul Mofaz, Tzipi Livni è il primo ministro incaricato d’Israele. Ehud Olmert – che continua a essere interrogato dai giudici e dalla polizia a intervalli regolari per rispondere delle accuse di corruzione – è ancora formalmente il capo dell’esecutivo e spetta a lui e ai suoi ministri il disbrigo degli affari correnti. A Livni, la prima donna chiamata a formare un governo a Gerusalemme dai tempi di Golda Meir, spetta invece l’onere di costruire una maggioranza parlamentare che riesca a sorreggere il suo primo governo e a scongiurare il voto anticipato. Poche ore dopo l’elezione alla guida del partito che fu di Ariel Sharon, Livni ha tentato l’intentabile, chiedendo al leader del Likud, Benjamin Netanyahu, di formare con lei e con tutti i partiti della Knesset un gabinetto di unità nazionale nel quale tutto potesse essere messo in discussione a eccezione della leadership in carico a Kadima. Il leader della destra ha dato un’occhiata ai sondaggi che lo danno ormai da mesi in testa alle preferenze degli israeliani e ha rifiutato l’offerta, certo di dover aspettare non più di sei settimane – tanto è il tempo a disposizione del premier incaricato – per tornare al governo da solo.
E’ stato a quel punto che Tzipi Livni deve aver capito di avere una sola possibilità per evitare la beffa di una premiership soltanto sfiorata. Per conquistare il governo, avrebbe dovuto riconquistare l’alleato-nemico Barak. Formalmente, il leader laburista non dovrebbe faticare a rimanere dov’è: un anno fa, dopo aver strappato la leadership di Avoda ad Amir Peretz, l’ex premier era stato richiamato al governo – come ministro della Difesa – da Ehud Olmert. Quando però quest’ultimo ha cominciato a essere nei guai per le bustarelle ricevute dal finanziere americano Morris Talansky, Barak non l’ha difeso, preferendo sollevare una “questione morale” che poteva avere un solo sbocco: le dimissioni del primo ministro. L’obiettivo è stato raggiunto. Lo scorso luglio Olmert ha accettato l’indizione delle primarie del suo partito e non ha presentato la propria candidatura, accettando (almeno per ora) la fine della sua carriera politica. Due mesi più tardi, il suo posto è stato preso da Livni, suo ministro degli Esteri.
E’ stato a quel punto che Ehud Barak deve aver capito di avere una sola possibilità per evitare la beffa di un successo politico controproducente: lasciarsi riconquistare da Livni. I sondaggi dicono infatti che, se si andasse a votare domani, gli israeliani farebbero quasi certamente vincere il Likud di Bibi Netanyahu e ridimensionerebbero Kadima. I centristi guidati da Tzipi Livni rimarrebbero comunque la prima forza dell’opposizione. I laburisti di Avoda, invece, faticherebbero invece a riconfermare i loro seggi alla Knesset. Persino quello di Barak potrebbe essere a rischio. Per scongiurare la débacle elettorale e l’irrilevanza politica, il leader laburista deve insomma formare una maggioranza e un governo il più possibile simili a quelli che ha contribuito a rompere in prima persona.
In poco più di venti giorni i contatti tra Livni e Barak non si sono limitati a una cena in casa, per quanto cordiale. I due si sono visti più volte, si sono sentiti telefonicamente quasi tutti i giorni e – quando non l’hanno fatto – c’erano gli emissari di Kadima e Avoda a trattare per loro. Chi fa parte della loro cerchia ristretta giura che l’accordo tra i due sia a un passo, sebbene in tre settimane nulla sembra essere cambiato. “Sono i loro emissari, piuttosto, a cavillare troppo, forse per dimostrare di essere dei buoni avvocati”, ironizzava un po’ amaramente un dirigente laburista coperto dall’anonimato citato qualche giorno fa dal Jerusalem Post. Che l’intesa sia a un passo non lo dicono però le dichiarazioni di Barak. Lui, che il 23 settembre scorso giurava ai suoi nel corso di un’assemblea del partito che “Avoda rimarrà un fattore chiave della politica israeliana” sotto la sua leadership, nel giro di pochi giorni ha lasciato intendere di preferire le elezioni (secondo quanto riportato dal ministro laburista dell’Agricoltura, Shalom Simhon) ma anche di volerle evitare a ogni costo. Negli stessi giorni Barak ha pure detto che “nessuna condizione” tra quelle da lui poste a Kadima era stata esaudita, salvo poi far capire che invece il negoziato tra le due principali forze dell’ex maggioranza di governo era “nelle fasi conclusive”.

“Fulmine” e gli altri
La stampa israeliana non ha risparmiato l’ironia. Il Jerusalem Post ha ricordato che in ebraico Barak vuol dire fulmine e che “i fulmini vanno a zigzag proprio come il leader del Partito laburista”, divertendosi a mettere in fila tutte le dichiarazioni contraddittorie rilasciate nell’ultimo mese dal ministro della Difesa. Ari Shavit, su Haaretz, ha invece definito Barak “l’uomo che tutti amano odiare”, riconoscendogli però – nel bene o nel male – di essere anche “l’uomo che ha portato il cambiamento”. Il punto, secondo il columnist del quotidiano liberal israeliano, è che al leader laburista “manca la saggezza delle cose semplici” e che le sue troppe mosse esclusivamente tattiche potrebbero finire per farne la vittima di se stesso. L’ipotesi è verosimile. Visti i numeri alla Knesset, il solo accordo tra Kadima e Avoda non sarebbe sufficiente a garantire la sopravvivenza a un futuro governo Livni, nel quale Barak vorrebbe avere “un ruolo chiave nel negoziato con la Siria”. Se l’ex premier intenda averlo continuando a occupare la poltrona di ministro della Difesa o prendendo invece possesso di quella di ministro degli Esteri, non è ancora chiaro. Per quel posto, dicono le cronache parlamentari, sarebbe pronto però l’ex rivale di Livni, Shaul Mofaz, che dopo tre settimane di pausa di riflessione è tornato alla vita politica. L’ex candidato alla leadership di Kadima è ancora ministro dei Trasporti, e in questa veste si è ripresentato qualche giorno fa in Consiglio dei ministri. Pur essendo tornato a sedersi con Olmert e gli altri membri dell’esecutivo dimissionario, Mofaz non si è però fatto vedere alle riunioni di partito di Kadima. E non avrebbe dato una risposta all’offerta di Livni, che gli cederebbe volentieri il dicastero degli Esteri lasciato libero da lei pur di garantirsene la presenza nel nuovo gabinetto.
Non è una questione di unità del partito. Parecchi analisti politici israeliani, nelle ultime settimane, hanno sottolineato quanto sia stretto il rapporto tra lo stesso Mofaz e il maggiore tra i partiti ultraortodossi, Shas. Eli Yishai, leader della formazione che nel governo Olmert poteva vantare quattro ministeri, ha incontrato più volte Livni, ma tra i sefarditi di Shas e Kadima le distanze rimangono, soprattutto sulla questione degli assegni familiari, che il partito confessionale vorrebbe alzare e gli eredi di Sharon no. Portare Mofaz nel governo – è pertanto il ragionamento dell’entourage di Livni – potrebbe servire ad appianare le divergenze con un alleato indispensabile per la formazione di una maggioranza almeno equivalente a quella che sosteneva il già instabile governo di Ehud Olmert.
Tzipi però vorrebbe di più e per questo ha intavolato trattative anche con un altro partito ultraortodosso, United Torah Judaism (Utj), con i pensionati di Gil e con i parlamentari della sinistra di Meretz, che però per cominciare a negoziare hanno chiesto subito di non riconfermare alla Giustizia il guardasigilli uscente, Daniel Friedmann. Anche in questo caso i giornali non hanno perso l’occasione di ironizzare sullo stallo politico, tanto che Haaretz ha persino lanciato un gioco di società online: costruisci il tuo governo. L’obiettivo principale di Livni resta però l’intesa con Barak, senza la quale gli eventuali accordi con i piccoli partiti non servirebbero a nulla. Domenica sera i due si sono rivisti nella sede del ministero degli Esteri per discutere l’ultima proposta avanzata dal leader laburista, che vorrebbe aumentare il livello della spesa pubblica nella legge finanziaria per il 2009. I sette economisti convocati dai due leader – tra i quali il governatore della Banca d’Israele, Stanley Fischer – si sono pronunciati contro l’idea di nuove spese, scartando di fatto un’altra tra le possibili basi di intesa tra Kadima e Avoda. Martedì le delegazioni dei due partiti si sono incontrate di nuovo, ma l’intesa non s’è trovata, tanto che Livni e Barak hanno deciso di accelerare il negoziato infinito fissando una prima riunione ufficiale (le altre erano sempre state informali) per domani, al termine dei festeggiamenti per lo Yom Kippur. A rendere tutto difficile, sostengono dall’entourage di Barak, sarebbero gli emissari di Kadima che “propongono condizioni differenti da quelle concordate dai due leader”, si lamentava ieri con Haaretz un anonimo dirigente laburista. Con gli avvocati che cavillano e gli economisti che non aiutano, forse il futuro d’Israele potrebbe risolverlo davvero un piatto di Yonut Hashaloh.

(© Il Foglio, 9 ottobre 2008)

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