venerdì 26 settembre 2008

Il nuovo bipolarismo bancario – John J. Mack


"Abbiamo bisogno di un partner per una fusione, altrimenti non ce la faremo”. Chi lo conosce dice che John J. Mack, una telefonata di questo tono, non l’avrebbe mai fatta. Per ricevere un rifiuto netto, poi. Persino il New York Times, che della conversazione riservata tra il Ceo di Morgan Stanley e Vikram S. Pandit, amministratore delegato di Citigroup, aveva fatto uno scoop, ha dovuto ammettere che non c’era una sola fonte disponibile a confermare.
Che l’uomo conosciuto a Wall Street come “Mack the knife”, Mack il coltello, per l’aggressività e la capacità innata di tagliare teste e costi inutili nelle banche che negli anni è stato chiamato a guidare, potesse usare quelle parole per cercare un nuovo alleato e uscire dalla crisi, è quantomeno improbabile. Più facile che il sessantacinquenne John abbia chiamato il rivale Pandit e gli abbia intimato: “Mettiti con me o te ne pentirai”. Come siano andate effettivamente le cose, non è dato sapere. Quel che è certo è che da domenica Morgan Stanley non è più una banca d’investimenti. Il governatore della Federal Reserve, Ben Bernanke, ha comunicato agli ultimi due giganti finanziari ancora in piedi a Manhattan, Goldman Sachs e Morgan Stanley, di aver accolto la loro richiesta di aiuto. La trasformazione, che a Wall Street segna la fine di un’era (quella degli investment firm svincolati dalle comuni regole bancarie e più portati ad assumersi grossi rischi finanziari), porta vantaggi alle banche che l’hanno cercata, che rinunciando a un po’ di libertà potranno contare su nuove opportunità per rafforzare la loro liquidità. Ma anche al governo americano, che non rischierà di doversi imbarcare in un’altra operazione di salvataggio.
Telefonate a parte, Mack sa che il nuovo status da solo non sarà sufficiente a mettere al riparo Morgan Stanley da una crisi del settore finanziario che in meno di due settimane ha portato alla scomparsa di un colosso come Lehman Brothers, alla perdita dell’indipendenza di Merrill Lynch e alla nazionalizzazione di Aig. Il contenuto della chiacchierata con il Ceo di Citigroup è verosimile. Da almeno una settimana le cronache finanziarie raccontano i tentativi dei vertici di Morgan Stanley di avviare negoziati per portare a termine fusioni, capitalizzazioni o alleanze. In pochi giorni il titolo ha perso oltre il 40 per cento del suo valore e, nonostante l’inversione di tendenza dei mercati impressa dalle riforme annunciate dalla Fed e dal Tesoro, la sensazione è che il trend negativo di Morgan Stanley possa rallentare, ma che difficilmente cambierà segno. Con una crisi che sta sgomberando il campo da tante istituzioni ritenute inaffondabili fino a poco tempo fa, i nomi su cui puntare sono relativamente pochi. Esclusa Goldman Sachs, le attenzioni degli uomini di Morgan Stanley si sarebbero rivolte soprattutto verso Citic, Wachovia, Hsbc, Banco Santander e Numura. Alla fine, però, sono stati gli emissari di Mitsubishi UFJ Financial Group, la più grande banca del Giappone, ad assicurarsi il controllo di un pacchetto di azioni tra il 10 e il 20 per cento (i dettagli dell’operazione non sono ancora stati definiti) in cambio di un investimento da 8,4 miliardi di dollari. Una mossa che ha di fatto impedito quella del fondo sovrano cinese China Investment Corporation, pronto ancora lunedì scorso ad aumentare il proprio peso in Morgan Stanley fino al massimo consentito dalla legge americana del 49 per cento.
L’arrivo degli investitori pechinesi a Manhattan è recente e porta la firma di John Mack. Quando, alle prime difficoltà derivate dai mutui subprime, a Morgan Stanley ci si rese conto che c’era bisogno di soldi freschi, i cinesi si presentarono con cinque miliardi di dollari in contanti pronti a essere versati in cambio di un’opzione sul 9,9 per cento delle azioni da esercitare nel 2010. Era il 19 dicembre del 2007, e Mack probabilmente lo prese come un regalo di Natale. In quel momento il numero uno di Morgan Stanley si sentiva fortissimo: “Volete sapere se ci siamo assunti parecchi rischi? – aveva chiesto pochi giorni prima agli azionisti durante il meeting annuale – La risposta è, ovviamente, sì”. Il management era con lui (e c’è ancora), gli azionisti pure. Qualche mese più tardi alcuni di essi, come il fondo pensionistico CtW Investment Group, chiederanno le sue dimissioni, inutilmente.
Nonostante la svalutazione in Borsa, “Mack the knife” è ancora al suo posto. Entrato come trader a 28 anni, quattro anni più tardi era già vicepresidente della banca. Tre anni dopo, nel 1979, avrebbe assunto anche l’incarico di managing director, stabilendo una serie continua di record nei risultati. Nel ’93 era già presidente. Morgan Stanley era “the top dog on the Street”, la prima banca d’investimenti fra quelle quotate alla Borsa di New York, e ai cronisti piaceva raccontare l’epopea di questo eroe dell’America self-made e multiculturale. John J. Mack, nato John Makhoul, veniva dal Libano. A dodici anni aveva raggiunto suo padre, che a Mooresville, nella Carolina del nord, aveva aperto un piccolo negozio di alimentari. A scuola John si mise in luce più come giocatore di football che come studente modello, e anche per il senso di empatia che lo portava a stringere amicizia con chiunque. Grazie a una borsa di studio riuscì a iscriversi all’università e, complice la rottura di una vertebra, cominciò a studiare davvero. Per arrotondare, passava la notte vendendo merendine nella sua stanza nel dormitorio maschile.
Ancora oggi, chi lo incontra per la prima volta se lo vede venire incontro con la mano tesa: “Piacere, sono John Mack”, dice lui sorridendo e senza aggiungere altro. Ma tutti sanno che John Mack non è soltanto un tipo alla mano. Non l’avrebbero chiamato “the knife” se non fosse capace di licenziare chiunque senza il minimo imbarazzo (in tre anni, quando andò a lavorare a Crédit Suisse-First Boston, tagliò diecimila posti di lavoro con un risparmio di tre miliardi di dollari), di alzare la voce e di farla pagare a chiunque tenti di sbarrargli il passo. Lo sa bene Phil Purcell, che con lui aveva condotto, nel 1997, l’operazione da 10 miliardi che portò alla fusione tra Morgan Stanley e la Dean Witter. Un accordo non scritto prevedeva che Purcell assumesse inizialmente l’incarico di Ceo, con Mack alla presidenza della banca, salvo poi scambiarsi i ruoli cinque anni più tardi. Quando, nel 2001, John Mack capì che Purcell non sarebbe stato ai patti, abbandonò la banca dove era cresciuto, giurando che sarebbe tornato. Quattro anni dopo, il consiglio di amministrazione licenziò il suo rivale, accettò di versargli 40 milioni di dollari di risarcimento e lo pregò di tornare alla guida della società. Mack non se lo fece ripetere, ma non era ancora abbastanza. Nel giro di due mesi licenziò chi non voleva adeguarsi al “nuovo corso”, richiamò chi l’aveva seguito nel 2001, e cominciò a viaggiare, ininterrottamente. A Dubai sbarcò prima dei rivali di Goldman Sachs, lasciando soltanto le briciole alla concorrenza. In Europa e Asia lasciò intendere che Morgan Stanley non viaggiava più “con il pilota automatico” e che era pronta a rischiare con tutti i nuovi prodotti che i mercati finanziari gli avessero messo via via a disposizione. “Pensate come se foste i proprietari”, ripeteva sempre ai suoi collaboratori. Adesso sostiene che la “sua” banca è “nel mezzo di un mercato dominato dalla paura e dagli speculatori” e, seppure non l’avesse fatta, quella telefonata a Citigroup potrebbe pure decidersi a farla.
Alan Patarga

(© Il Foglio, 25 settembre 2008)

Nessun commento: