Chissà se lo vorrebbe ancora al ministero dell’Economia, Carlo De Benedetti, lui che ancora due giorni fa parlava al forum dell’Aspen Institute sulle relazioni tra Roma e Gerusalemme di un’Italia economicamente e politicamente “fuori dagli schermi radar del resto del mondo”. All’Ing., nell’ottobre del 2005, Benjamin Netanyahu pareva l’uomo giusto, quello in grado di salvare l’Italia dall’oblio economico con una buona dose di liberismo da coniugare al riformismo della (allora) promettente coppia di fatto Veltroni-Rutelli. Erano i giorni della visita israeliana di Gianfranco Fini, a quel tempo ministro degli Esteri, che si concluse con le frasi sul fascismo “male assoluto” e l’ennesimo mal di pancia all’interno di Alleanza nazionale. De Benedetti faceva parte della delegazione italiana in visita a Gerusalemme e, nella hall dell’hotel King David, incrociò l’ex primo ministro del Likud, allora ai margini della vita politica del suo paese dopo l’uscita dal governo Sharon in polemica con il piano di disimpegno da Gaza. “Le sue idee sarebbero utili anche da noi”, disse CDB. La proposta di un ministero economico in Italia, lui che in quei giorni prometteva di prendere la tessera numero uno del Pd, non l’ha mai confermata.
Fu proprio Netanyahu, due mesi più tardi, quando la sorte cominciava a tornare dalla sua parte, a concedere lo scoop ai cronisti: “Qualche tempo fa un importante imprenditore italiano mi ha chiesto se fossi disponibile a fare il ministro delle Finanze nel suo paese”. Bibi, che proprio alle Finanze aveva avuto fino a pochi mesi prima la sua ultima esperienza ministeriale, precisò quasi subito che l’imprenditore non era il Cav., ma “il miliardario Carlo De Benedetti”. Dall’entourage dell’Ing. arrivò quasi subito la smentita (“si sono visti per tre minuti”, dissero) e forse la verità è che Netanyahu, al momento di tornare alla guida del Likud, voleva lasciar intendere di non essere mai uscito davvero dal giro che contava. Magari ampliando un po’ un aneddoto, aggiungendo una mezza frase. Non sarebbe stata una novità. Una volta, forse per dare enfasi a un’intervista, l’allora leader emergente della destra israeliana raccontò di avere “ancora vivido il ricordo dei soldati inglesi nel nostro paese”. Peccato che lui, essendo nato nel 1949, non avrebbe mai potuto vedere a Tel Aviv i militari britannici di pattuglia, dal momento che erano partiti tutti due anni prima, alla vigilia della dichiarazione d’indipendenza di Israele.
Vera o no che fosse l’offerta ministeriale di CDB, essa è comunque l’ennesima prova della capacità seduttiva del più giovane e controverso premier israeliano di sempre. Fu lui, nel 1996, ad assumere lo spin doctor repubblicano Arthur Finkelstein (che aveva lavorato per Ronald Reagan e che più tardi avrebbe offerto la propria esperienza ad Ariel Sharon) per portare nella grigia e un po’ ingessata politica israeliana i lustrini e le strategie di quella statunitense. Funzionò.
Contro tutti i pronostici, il Likud vinse le elezioni, nonostante i sondaggi dicessero che Shimon Peres, succeduto pochi mesi prima a Yitzhak Rabin dopo l’assassinio del leader laburista, aveva la vittoria a portata di mano. Per tre anni Bibi Netanyahu guidò Israele cercando di contraddire quel che i suoi predecessori di sinistra avevano costruito, a partire dagli accordi di Oslo che erano valsi a Peres, Rabin e a Yasser Arafat il premio Nobel per la pace. La sua determinazione, racconta chi lo vide all’opera, era pari soltanto alla sicurezza di sé: “Chi cazzo si crede di essere?”, chiese ai suoi assistenti Bill Clinton, nella pausa di una sessione di colloqui bilaterali. “Chi è la superpotenza, lui o io?”, si domandava l’allora presidente degli Stati Uniti. A questa domanda i due, probabilmente, avrebbero risposto in maniera diversa.
Figlio di un immigrato lituano che di cognome faceva Mileikowsky, Bibi Netanyahu ha sempre saputo cosa volere e come ottenerlo. Studi al Massachusetts Institute of Technology e a Harvard, un primo impiego da venditore di mobili che probabilmente gli ha lasciato in eredità il gusto di vendere e di vendersi alla gente, l’attuale leader dell’opposizione israeliana ha saputo sempre come e quando puntare sulle sue qualità e sulla sua immagine. Gli bastarono poche conferenze sul terrorismo – a lui, fratello di una testa di cuoio israeliana uccisa da un commando di dirottatori all’aeroporto ugandese di Entebba nel ’76 – per attirare l’attenzione di Moshe Arens. Aveva 27 anni quando l’allora ambasciatore a Washington lo chiamò al suo fianco in America aprendogli le porte della carriera diplomatica che si sarebbe conclusa, pochi anni dopo, con l’incarico di rappresentante israeliano alle Nazioni Unite che ne fece un ospite fisso in tutti i talk show politici americani. Per lui, cresciuto a Cheltenham, a due passi da Filadelfia, un gioco da ragazzi che gli valse la simpatia di buona parte della comunità ebraica degli Stati Uniti.
Nulla, a confronto di quel che accadde pochi anni dopo, quando Bibi compariva tutti i giorni in tv – una volta persino con una maschera antigas indossata nel bel mezzo di una diretta – per raccontare al mondo che il suo paese e il governo di cui era portavoce non avevano paura dei missili Scud che l’Iraq di Saddam Hussein sparava un giorno sì e l’altro pure sulle case degli israeliani. Erano i tempi della prima guerra del Golfo, e di lì a tre anni Netanyahu sarebbe diventato il nuovo leader del Likud. Alle prime elezioni primarie per la scelta del numero uno del partito, Bibi aveva battuto la concorrenza degli eredi legittimi di Shamir ed era riuscito a scoraggiare Ariel Sharon dal partecipare alla contesa. L’ex generale si sarebbe rifatto otto anni più tardi, dopo che il suo rivale era già diventato il primo premier israeliano a essere nato dopo l’indipendenza e aver perso a sorpresa – appena tre anni dopo – contro il laburista Ehud Barak, complici i dissensi alla sua destra per le concessioni ai palestinesi su Hebron e un’inchiesta per corruzione rivelatasi – tempo dopo – senza fondamento.
Quando va al potere, Sharon, che non l’ha mai amato, lo chiama al ministero degli Esteri, un posto onorevole per un ex premier, perché – crede – all’interno del governo sarà più facile tenerlo d’occhio che non fuori. Previsione che si avvera a metà, tanto che due anni dopo il primo ministro, con la scusa di un rimpasto post elettorale, gli chiede il sacrificio di trasferirsi al ministero delle Finanze. Bibi all’inizio rifiuta, offeso. Poi, dopo una notte di riflessione, torna sui suoi passi e accetta la proposta, chiedendo poteri straordinari in politica economica. A Sharon, ex militare proiettato nella soluzione della questione palestinese, l’accordo può andare. In due anni, Netanyahu svecchia il capitalismo israeliano con un piglio che molti definiranno “thatcheriano”: riforma il sistema bancario, vara le prime privatizzazioni nel paese, predica (e in parte attua) l’abbassamento delle tasse, sostenendo che la riduzione delle aliquote non porterà minori entrate nelle casse dello stato perché i soldi cominceranno a circolare e l’economia crescerà, facendo crescere il gettito.
Dura due anni, poi Bibi – che nel frattempo ha fatto innamorare di sé i capitalisti di mezzo mondo, compresi quelli italiani e democratici – torna a essere l’uomo dei “no”. Quando, nell’estate del 2005, Sharon illustra il piano per il ritiro unilaterale da Gaza, il ministro delle Finanze prima minaccia e poi rassegna le dimissioni. La rottura, stavolta, è insanabile. E la peggio sembra averla proprio lui, con Sharon ai vertici della popolarità e la destra del Likud di cui è il campione sempre più incompresa, nella sua ostinata contrarietà al disimpegno. A ridargli un ruolo, in qualche modo, è proprio l’allora premier, che tre mesi più tardi decide di costruirsi un partito centrista a sua misura, Kadima, e di abbandonare al loro destino gli irriducibili del Likud.
Quando vince le primarie, nel dicembre del 2005, Netanyahu è il capo di un partito che – di lì a qualche mese – rischierà di scomparire dalla Knesset. Due anni e mezzo dopo – con Gaza in mano ad Hamas, Sharon fuori combattimento e il suo successore, Ehud Olmert, travolto dalle accuse di corruzione – Bibi è pronto per la rivincita. Adesso che due israeliani su tre dicono che lo vorrebbero come primo ministro e che il suo Likud otterrebbe facilmente la maggioranza parlamentare, è tornato quello di un tempo, capace di dire che “allearsi oggi con Kadima sarebbe come investire in Lehman Brothers” e di prepararsi alle elezioni con una “lista Beautiful” piena di celebrità in grado di attrarre gli elettori di centro. Un’altra trovata che sarebbe piaciuta all’Ing.
Alan Patarga
(© Il Foglio, 19 settembre 2008)
Nessun commento:
Posta un commento