mercoledì 19 marzo 2008

In Tibet Pechino ha paura della religione


Se un pugno di bonzi che gira in senso orario intorno allo Jokhang, il più sacro dei templi tibetani, spaventa i capi del comunismo pechinese più delle adunate vocianti che reclamano diritti e democrazia per Hong Kong, una ragione c’è. Sanno che l’anelito alla libertà dei primi è una questione di fede; quello dei secondi, di soldi.
Lo sa Hu Jintao, che ai tempi dell’ultima rivolta dei monaci era il proconsole di Pechino a Lhasa e che sedò nel sangue una rivolta iniziata con una processione religiosa. Oggi come allora, tutto è cominciato con i religiosi buddisti che percorrevano il “khorra”, il circuito sacro all’interno del Barkor, il cuore dell’antica capitale. L’unica differenza è che, diciannove anni dopo, quello che era uno zelante funzionario di periferia è diventato presidente della Repubblica popolare. E’ lo stesso uomo che non ha avuto problemi a sposare il capitalismo di stato, a favorire l’arrivo nel suo paese di investitori stranieri, a chiedere e ottenere le Olimpiadi per Pechino, a riconoscere all’ex colonia britannica sul mar della Cina un discreto grado di autonomia. Deve aver notato qualcosa di straordinario, in quei giorni di tumulti tra i monaci, se a distanza di due decenni rifiuta di concedere ai tibetani quel che è concesso, implicitamente, persino ai secessionisti di Taipei. Ma il punto è proprio questo: il grido dei bonzi di Lhasa, “Bod rangzen”, Tibet libero, non è il grido di battaglia di una forma himalayana di leghismo, nonostante quel che vorrebbe far credere il governo cinese.
(segue dalla prima pagina) Il tentativo di Pechino è stato proprio questo: dipingere i monaci e i civili tibetani come le punte avanzate di un movimento separatista. Quando i media occidentali hanno raccontato della “marcia” dei religiosi, hanno di fatto avallato questa tesi. Ma la marcia era una processione e il grido di libertà era una preghiera. Non è un dettaglio trascurabile e Hu mostra di saperlo. Facendo parlare di separatismo, il leader cinese tenta di annullare il vero potenziale eversivo della protesta tibetana: quello religioso. Se dai tempi dell’invasione maoista l’epicentro della rivolta sono sempre stati i monasteri, se il direttorio birmano ha vissuto le sue ore più difficili a causa della rivoluzione zafferano, ossia per la sfilata pacifica di migliaia di monaci per le vie di Rangoon, se insomma sono i preti a essere in prima linea contro i governi oppressori, allora la religione è il nemico che, per essere battuto, dev’essere prima silenziato. E’ successo con le chiese cristiane “patriottiche”, utili a sopire quelle autentiche. E’ successo con il Panchen Lama rapito e sostituito da un ragazzino gradito ai maggiorenti del Pcc. Fuori dal Tibet ci sono 150 milioni di cinesi buddisti. Perché non diventino la forza morale del movimento democratico, il Dalai Lama deve sembrare un Alberto da Giussano qualsiasi.
Alan Patarga

(© Il Foglio, 19 marzo 2008)

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