Roma. Gli azionisti di minoranza che vendono in blocco, il titolo che crolla, la possibilità del delisting e l’ombra di Rupert Murdoch. Per Arthur Ochs Sulzberger jr., detto “Pinch” (suo padre, Arthur senior, era soprannominato “Punch”), dal 1992 a capo della New York Times Company, non è stata una bella settimana. Mercoledì mattina un lancio dell’agenzia Bloomberg ha reso noto quello che ai vertici della holding che pubblica il New York Times e il Boston Globe temevano da tempo: l’uscita di scena di Morgan Stanley Investment Management, il fondo che – con il suo 7,2 per cento del capitale – era il secondo investitore istituzionale della compagnia e il principale antagonista della famiglia Sulzberger tra i soci. L’uscita di Morgan Stanley preoccupa i Sulzberger perché temono l’arrivo di azionisti ancora più ostili.
Morgan Stanley era entrata nel gruppo NYT nel 1996, ma era soltanto da due anni che lo spregiudicato direttore del fondo d’investimento della banca americana, Hassan Elmasry, aveva deciso di muovere una sua personalissima guerra a una delle dinastie più longeve dell’editoria statunitense. La sua battaglia si è apparentemente conclusa mercoledì mattina con la decisione di vendere (l’acquirente è rimasto finora sconosciuto) i dieci milioni di azioni in mano a Morgan Stanley, un patrimonio in titoli valutato circa 183 milioni di dollari.
Elmasry aveva a lungo tentato di convincere la famiglia Sulzberger, sostenuto in questa operazione da numerosi azionisti di minoranza, a rinunciare al sistema di voto che permette loro, con azioni pesanti di “classe B”, di controllare nove membri del board su tredici pur non detenendo più da tempo il pacchetto di maggioranza della holding.
In due anni di contestazioni pubbliche delle scelte aziendali (come la vendita di alcune emittenti televisive di proprietà del gruppo per ripianare il deficit o la decisione di acquistare il portale di inserzioni About.com), Elmasry era riuscito a portare sulle sue posizioni, la scorsa primavera, il 42 per cento degli azionisti. Tanti, tenuto conto che nel 2006 la quota degli scontenti era ancora ferma al 30 per cento. Ma, evidentemente, non abbastanza per garantire alla cordata organizzata da Morgan Stanley un possibile controllo del gruppo.
Alle prime indiscrezioni sulla vendita, Wall Street ha reagito male, facendo crollare il titolo della New York Times Co. di oltre il 3 per cento, fino a 18,29 dollari, minimo storico dal dicembre 1996. Nel 2002 la quotazione aveva toccato i 53 dollari per azione. Ciononostante, secondo Edward Atorino, analista di Benchmark Company, “Arthur Sulzberger non perderà il sonno”. Non tutti la pensano come lui, a Wall Street. Il pericolo che l’azione di disturbo di Elmasry potesse andare a buon fine era reale. Un esempio concreto era l’assalto, riuscito, di Rupert Murdoch alla Dow Jones Corp., proprietaria del Wall Street Journal. Vero è che il magnate australiano era riuscito nell’impresa grazie alle divisioni interne alla famiglia Bancroft, ma lo stesso finanziere di origini egiziane avrebbe potuto tentare – alla lunga – un’opzione simile. Un pericolo che Pinch Sulzberger non sembra intenzionato a correre ancora, anche in considerazione del fatto che l’altro socio ribelle, T. Rowe Price (che possiede il 14 per cento delle azioni di “classe A”) è ancora lì, pronto a riprendere la battaglia. Così, la soluzione migliore per garantire il controllo del gruppo alla famiglia Ochs-Sulzberger potrebbe essere il delisting, l’uscita dalla Borsa. Secondo Porter Bibb, dirigente di Mediatech Capital Partners ed ex di New York Times Co., dopo Elmasry “potrebbe esserci un esodo di azionisti istituzionali. A quel punto i Sulzberger dovranno sedersi intorno a un tavolo e decidere se non sia arrivato il momento di tornare una private company”.
Abbandonare Wall Street sarebbe un modo anche per allontanare l’ombra dello stesso Murdoch (già proprietario del tabloid New York Post e della Fox) che, dopo aver conquistato il Wall Street Journal, potrebbe puntare al glorioso Times. La proposta di legge sulle concentrazioni editoriali che renderebbe compatibile la proprietà di giornali e tv nella stessa città, presentata in questi giorni, glielo consentirebbe.
Alan Patarga
(© Il Foglio, 19 ottobre 2007)
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