Washington. Ieri i mercati americani erano chiusi per il Martin Luther King Day. Sono state Asia ed Europa a sentire l’onda d’urto del panico di Borsa. Dall’inizio dell’anno il Nasdaq, listino tecnologico di New York, ha perduto il 10,3 per cento, il listino industriale Dow Jones l’8,8, e sulla scia americana il Nikkei di Tokyo ha perduto il 13 per cento (solo ieri quasi il 4), il Dax di Francoforte il 15,8, e lo S&P Mib di Milano il 12 per cento. La crisi della finanza investirà l’economia reale? E’ tempo davvero di recessione? Mild, o deep, come paventava ieri il Wall Street Journal? “Non prevediamo una recessione”, aveva detto Ben Bernanke la scorsa settimana, benedicendo lo stimolo fiscale di George W. Bush. Ora che gli assegni con il “tax rebate” sono quasi pronti per essere imbustati e spediti ai contribuenti americani (si parla di 800 dollari una tantum per i single e di 1.600 per le famiglie, un provvedimento simile a quello adottato per superare le crisi del 2001) e che i mercati non hanno reagito positivamente alle novità, i giornali e gli economisti che da mesi parlano del pericolo di una recessione per l’economia americana sono entrati nella fase del panico. “The Panic Stage” era il titolo di un’analisi pubblicata ieri sempre sul Wall Street Journal. E non erano ancora arrivate le notizie dall’Asia e dall’Europa. “Quello attuale non è un bello spettacolo, ma il peggio è tutt’altro che inevitabile: basta che i leader politici e quelli economici non si perdano d’animo e si concentrino sui rimedi”.
(segue dalla prima pagina) L’analisi non firmata (riconducibile pertanto alla linea ufficiale del WSJ) prosegue rivendicando “un decennio di crescita reale” dopo la crisi post 11 settembre, e traccia gli scenari futuri: “Ci sono due modi per arrivare al punto di rottura. Uno è l’insolvenza di uno o più soggetti in un mercato, e da questo punto di vista ci sono stati progressi. L’altro è la perdita di fiducia nelle capacità di saper gestire il sistema finanziario statunitense e il dollaro. Per questo, ci auguriamo che la Fed non abbia sperperato in questi anni la sua credibilità. In realtà, a giudicare dagli indicatori economici, più che una contrazione sembra un rallentamento della crescita. Tutto sta a evitare che il panico di oggi si trasformi in qualcosa di peggio domani”. Già, perché le crisi economiche sono determinate da comportamenti di gruppo, dalla psicologia dei mercati.
Il WSJ di ieri dedicava un altro articolo, l’apertura del giornale, alla possibilità di una recessione americana, che nessuno degli economisti interpellati si è sentito di escludere a priori. Secondo David Rosenberg, economista di Merrill Lynch, la crisi somiglia più a quella del 1991 che all’esplosione della bolla di Internet. Per Carmen Reinhart dell’Università del Maryland e Kenneth Rogoff di Harvard “la crisi attuale potrebbe diventare grave almeno quanto una delle cinque peggiori crisi finanziarie che hanno colpito i paesi industrializzati dopo la Seconda guerra mondiale”. C’è chi evoca lo spettro di una recessione simile a quella che colpì il Giappone negli anni Novanta, quando ci vollero molti anni per quantificare le perdite. Uno dei problemi che preoccupano il mercato è che più a lungo regna l’incertezza sulle perdite più tarda a tornare l’ottimismo degli operatori. Lo stimolo bushiano non sembra aver fugato le incertezze, e il piano presidenziale dovrà affrontare un difficile negoziato parlamentare che non sarà esente – faceva notare l’Economist di questa settimana – dagli interessi politici di parte e dal clima elettorale. Così John Auster del Financial Times annunciava pochi giorni fa che “la recessione è già cominciata” e giustificava la sua affermazione con un forte ribasso nell’indice delle previsioni della Fed sulle condizioni generali degli affari in Usa. Gli faceva eco ieri – sempre sul FT – l’economista giapponese di Credit Suisse, Kyoya Okazawa: “Non si sa come andrà a finire: questo è il potere della paura che spinge verso il basso il mercato equity”.
C’è pure chi è moderatamente ottimista, chi crede che i mercati stiano operando una correzione ancorché dolorosa o chi per sconfiggere la recessione invoca soluzioni keynesiane o confida nella forza dell’economia reale, a partire dalle esportazioni (avvantaggiate in questa fase dal dollaro basso) che valgono comunque il doppio del settore edilizio residenziale nel paniere del pil americano.
(© Il Foglio, 22 gennaio 2008)
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