martedì 18 dicembre 2007

Così Bush ha vinto la battaglia di Bali


A Baghdad c’è voluto il “surge” dei generali David Petraeus e Ray Odierno per far capire anche ai più critici quanto la vittoria in Iraq fosse a portata di mano. A Bali è bastato mandare Paula Dobriansky e James Connaughton per scompaginare i piani del fronte ambientalista delle catastrofi e far trionfare la strategia verde della Casa Bianca. Checché ne dicano i principali media americani (e con loro, il grosso della stampa mondiale), l’unico vincitore uscito dalla Conferenza delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico che si è tenuta nell’isola indonesiana è George W. Bush.
La vulgata dice che gli ambientalisti più accesi e i governi loro amici sono riusciti nella non facile impresa di far capitolare l’Amministrazione statunitense di fronte all’ipotesi dell’isolamento in tema di ecologia. Washington, hanno spiegato gli analisti della Cnn e quelli del New York Times e dell’Associated Press, ha dovuto cedere, dopo tanti “no”, e siglare un accordo che prevede “forti riduzioni” nelle emissioni di gas serra in un prossimo futuro. La cronaca nuda degli avvenimenti, così come l’ha raccontata domenica il Sunday Times, racconta esattamente il contrario: “Sebbene i principali paesi industrializzati, e tra essi l’America, abbiano acconsentito a un taglio delle loro emissioni di gas serra – ha scritto il giornale britannico – essi si sono rifiutati di approvare la proposta avanzata dall’Unione europea che prevedeva come obiettivo un taglio del 25-40 per cento delle emissioni entro il 2020. Gli attivisti ora si lamentano del fatto che alcuni tra i principali inquinatori del mondo, come l’America, il Giappone o il Canada, potranno continuare liberamente ad aumentare la loro quota di emissioni per anni e anni”. Non a caso Meena Rahman, presidente di Friends of the Earth, ha parlato di “un compromesso debole e al ribasso”, mentre un altro ambientalista, Tony Juniper, sosteneva che “questa conferenza ha fallito l’obiettivo di fissare una direzione di marcia chiara”.
L’idea di Washington messa all’angolo e dell’Europa goriana che trionfa non traspare dal resoconto del Sunday Times. Prima ancora che l’intesa fosse siglata, l’ex ambasciatore americano all’Onu, John Bolton, aveva già spiegato in un’intervista alla Fox che “delle democrazie industrializzate del G8 ben quattro, ossia Stati Uniti, Giappone, Canada e Russia, condividono il nostro punto di vista, e cioè che non servano obiettivi numerici in questo accordo. Gli altri quattro, ovvero gli europei, sono invece in disaccordo con noi. Quindi, all’interno del G8, siamo quattro a quattro, in perfetta parità. Andando a vedere anche le opinioni dei paesi in via di sviluppo come Brasile, India e Cina, però, si scopre che anche questi ultimi sono in linea con le nostre posizioni. Se c’è qualcuno che è isolato, qui, direi che si tratta degli europei e di Al Gore, non dell’America”. L’epilogo della conferenza di Bali dice che Bolton aveva visto giusto.
I delegati statunitensi non hanno cambiato idea. Al contrario, venerdì sera sono stati i rappresentanti dell’Unione europea a cancellare ogni riferimento numerico (quel 25-40 per cento di emissioni da ridurre entro il 2020) dalla loro mozione, accontentandosi di un “profondo ridimensionamento” delle emissioni di gas serra “per raggiungere l’obiettivo finale”. Di date, nemmeno l’ombra, così come di percentuali. “Questo è un inizio e non una fine”, ha detto concludendo i lavori della conferenza il segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon. Ma avrebbe potuto definirlo “l’inizio di un inizio”, perché in realtà il compromesso “accettato” dagli Stati Uniti e dagli altri 180 paesi firmatari non prevede altro che un lungo negoziato senza riferimenti certi se non la data di scadenza: il 2009, quando si terrà una nuova conferenza internazionale a Copenaghen. Fino ad allora, insomma, non cambierà nulla di nulla. Si continuerà, con toni assai simili a quelli della settimana scorsa, a discutere di catastrofi imminenti e di nazioni che inquinano più di altre, di sviluppo economico da proteggere e di natura da tutelare dalla perfidia umana. Ma saranno parole.
Fin qui i successi americani in negativo, quelli ottenuti, cioè, rinviando decisioni potenzialmente dannose per lo sviluppo economico statunitense e mondiale, che era poi il principale proposito dell’Amministrazione Bush. Ma la Casa Bianca è riuscita a fare di più, grazie ai suoi rappresentanti: è riuscita a far cadere quello che Yvo de Boer, segretario della Convenzione sui cambiamenti climatici dell’Onu e organizzatore della conferenza di Bali, aveva definito “il muro di Berlino del cambiamento climatico”, e cioè il principio secondo il quale l’onere di combattere l’inquinamento globale e le sue conseguenze avrebbe dovuto essere assunto dalle sole nazioni sviluppate e non anche, come chiesto da dieci anni dagli Stati Uniti, dai paesi in via di sviluppo. Paula Dobriansky, sottosegretario di Bush alla Democrazia e agli Affari globali, ha spiegato proprio al Sunday Times di aver “cambiato idea” sull’intesa di Bali “quando il Brasile e il Sud Africa hanno lasciato intendere di essere disponibili a partecipare attivamente ai tagli delle emissioni”. L’idea che tutti i paesi, e non soltanto quelli ricchi, debbano accollarsi l’onere di “salvare la Terra”, ha cambiato completamente il quadro delle trattative. Era stato proprio nel timore di squilibri nella crescita economica mondiale (a detrimento degli interessi americani) che il Senato degli Stati Uniti aveva approvato la “risoluzione Byrd-Hagel” con 95 voti favorevoli e zero contrari. Era il 1997, primo anno del secondo mandato presidenziale di Bill Clinton, e i senatori di entrambi i partiti decisero di sbarrare la strada alla ratifica del Protocollo di Kyoto fino a quando anche i paesi in via di sviluppo non avessero accettato di contribuire alla riduzione dell’inquinamento globale. Nonostante gli sforzi dell’Amministrazione democratica e la firma simbolica del vicepresidente Gore in calce al Protocollo, non se ne fece nulla. Dove Clinton e il suo delfino fallirono dieci anni fa, Bush è riuscito lo scorso weekend, appena due giorni dopo l’accusa – lanciata a Bali in mondovisione dall’ex rivale Gore – di essere “il peggior inquinatore del globo”. Al termine del negoziato l’olandese De Boer è scoppiato in lacrime.
In realtà, paesi industrializzati e nazioni in via di sviluppo non avranno le stesse identiche responsabilità. L’intesa raggiunta a Bali prevede infatti parametri precisi per ciascuno degli stati più economicamente avanzati del pianeta e limiti alle emissioni di biossido di carbonio più “indicativi” per i paesi come Cina e India. Ma la vittoria bushiana è proprio nell’aver rotto lo schema per il quale ai poveri non era chiesto nulla se non di continuare ad arricchirsi senza dover rispettare alcuna regola mentre ai paesi sviluppati si chiedeva di fare sacrifici per tutti. Esattamente l’opposto di quanto ipotizzato, per una settimana intera, dai gruppi ecologisti più oltranzisti, come il Mauch Consulting Group che aveva prospettato l’imposizione di una “tassa globale sulla CO2” da far pagare alle sole nazioni industrializzate per il principio “paghino soprattutto gli inquinatori”, dimenticando che la Cina ha recentemente superato gli Stati Uniti nella classifica mondiale della produzione di gas serra. Un altro gruppo ambientalista come Friends of the Earth, con linguaggio mutuato dall’ortodossia marxista, aveva proposto un trasferimento di fondi dai paesi ricchi a quelli poveri perché “la risposta al cambiamento climatico deve basarsi essenzialmente sulla redistribuzione delle ricchezze e delle risorse”. Un assunto che fa il paio con le dichiarazioni di Mayer Hillman, ricercatore britannico del Policy Studies Institute, secondo il quale il razionamento del carbonio è l’unico metodo efficace per impedire gli effetti catastrofici del climate change, anche contro il parere dei cittadini: “Io credo che la democrazia sia un obiettivo meno importante della protezione del nostro pianeta. I cittadini devono essere costretti al razionamento, che piaccia o no”, ha spiegato lo studioso. Nel suo blog ospitato sul sito della National Review, l’editorialista Mark Steyn ha dato un titolo emblematico a questo breve stralcio di intervista: “The Earth is your Führer”, la Terra è il tuo Führer. Anche da questa dittatura, per almeno due anni, Bush è riuscito a liberarci.
Alan Patarga

(© Il Foglio, 18 dicembre 2007)

2 commenti:

Anonimo ha detto...

auguroni di buon natale! GB

Anonimo ha detto...

...e anche di buon anno! :-)
GB